sabato 31 agosto 2013

Cinquantaquattro


Qualche tempo dopo arriverà anche uno di quei segnali che, se sei consciamente o inconsciamente predisposto in una certa direzione, ti aiutano a perseguirla con più convinzione. Sono piccoli segni, a volte dettagli, a volte sono enormi, ma se non sei predisposto non li cogli neanche così, a volte sono segnali che ti vengono dall'esterno senza che tu faccia niente e devi soltanto codificarli, a volte risultano molto spiacevoli e in quelle occasioni devi compiere un grande sforzo per accantonare il negativo e riuscire a distinguerli, altre volte li stai cercando senza aspettarti di incontrarli ma, imprevisti, appaiono.
A volte sono solo incontri. Incontri normali o incontri surreali che sia.
Era un pomeriggio qualsiasi di un giorno qualsiasi nella monotonia di un giorno senza lavoro a Dimbulah. Napoli era al bar. Eravamo in casa ammazzando il lento scorrere di quel pomeriggio. Napoli stava bevendo. Eravamo in Australia a meno di un chilometro da Napoli ma in quel momento non ne eravamo consapevoli. Poi le sirene. Cos'era? Ambulanza, polizia e pompieri tutti insieme? Qui dove il treno settimanale è un evento eccezionale, qui che quando siamo in giardino a selezionare frutta e passa un bambino in monopattino o Gesù in carrozzella (Gesù è un vecchio spagnolo barbuto che ormai ha imparato l'italiano e si ritrova a chiacchierare con i vecchi italioti locali intorno al tavolino fuori dal supermercato in vece della nostrana usanza di ritrovarsi al bar), qui che quando succede qualcosa alziamo lo sguardo e rimaniamo a fissare questo movimento che spezza l'immobilità, qui dove una sirena di un'ambulanza fa voltare tutti i paesani presenti, qui il suono di tante sirene significa qualcosa di incredibile. Siamo usciti e dal pub/hotel del paese arrivavano strane urla. Noi sbirciavamo, Napoli beveva. Ci siamo avvicinati con quel fare circospetto dei curiosi che cercano di apparire come fossero lì per caso. Le sirene, le urla venivano dal parcheggio dove erano radunate una ventina di auto un po' d'epoca, un po' modificate, tutte personalizzate, sicuramente strane. Dalle auto uscivano personaggi dei cartoni animati o rotolavano fuori barcollando uomini sudati e vistosamente ubriachi. L'evento in sé non aveva nulla di eccezionale per chi di auto d'epoca e di uomini ubriachi ne ha visti a bizzeffe. Più tardi, a furia di chiacchierare con personaggi dei cartoni o con ubriachi ci è venuta sete e siamo entrati.
Al bancone c'era un omino minuscolo in camicia a maniche corte, pantaloncini e berretto, da dietro a prima vista sembrava un bambino, ma la pelle era vecchia e con peli bianchi. L'omino parlava con un grosso australiano che non pareva prestargli attenzione, l'omino nominò Napoli e io dissi qualcosa in italiano a riguardo. L'omino si girò e iniziò a cantare.
Avevamo trovato Napoli. L'omino che nominò Napoli era giustappunto Napoli. Era l'unico immigrato napoletano della zona, era arrivato con l'ondata di migranti di una cinquantina d'anni fa. Si chiamava Quirino ma tutti lo chiamavano Napoli. L'omino cantò in napoletano con l'aria melodrammatica dei nativi di quella città. Poi scoppiò a piangere. Fa sempre uno strano effetto vedere un anziano sconosciuto piangere, il cuore si stringe e rimani in una buffa posizione di avvicinamento come se ti stessi slanciando in abbraccio ma poi ti blocchi e pensi “lo faccio?” e lui ti aiuta e, benchè ubriaco, cerca barlumi di lucidità e trattiene per quanto può le lacrime. Il solo fatto di avergli prestato attenzione lo commuove, poi si riprende, canta di nuovo, smette, racconta la sua storia e qui le lacrime gli piovono sulla faccia finchè non riusciamo a cambiare argomento, poi insiste per offrirci una birra per ringraziarci per averlo ascoltato. La sua è un'altra storia di solitudine, di profonda solitudine.
Brevemente.
Così basso di statura, ma orgoglioso come sono i napoletani è cresciuto rissoso per difendersi dalle offese sull'altezza, era il più piccolo di quattro figli, quello meno ubbidiente, le tre sorelle erano più tranquille. La situazione italiana era di estrema povertà, la povertà che spinse migliaia di italiani a imbarcarsi in nave per altri lidi compreso il viaggio di oltre un mese verso l'australia, questa che allora era più che mai sconosciuta. Crescendo passò qualche tempo a Roma, poi intorno ai vent'anni si trasferì per lavoro in Germania, in Italia suo padre morì, lui lasciò il lavoro e tornò a Napoli, la situazione di povertà era la stessa, qualcuno gli propose di andare in australia, allora Napoli era un ventitreenne “senza troppa capoccia” come ci disse, non ci pensò su, partì, lavorò nei campi, si sposò, ebbe delle figlie, divorziò, rimase solo, iniziò ad odiarsi (e a bere), a definirsi il più grosso degli stronzi per aver lasciato le sue sorelle con cui tuttavia si sentiva tutti i giorni, per aver lasciato sua madre senza più tornare, sua madre che nel frattempo era morta così lontano da lui e, non da ultimo, per aver lasciato Napoli. Napoli rimpiangeva di essere partito, era la persona più pentita di questa scelta che avessi trovato in australia, Napoli di diverso da tutti aveva che veniva da Napoli. Ora io non so come questa città possa prenderti l'anima, Napoli (città) non la conosco abbastanza, ma ogni volta mi sorprendo di come chi vi nasce vi resti attaccato per sempre, mi sorprendo di questo cordone ombelicale che non si strappa neanche a così grande distanza. Credo che tutti gli ex italiani arrivati anni indietro, per quanto alcuni non lo ammettano, sentano la mancanza di quanto di bello il nostro piccolo stivale ha da offrire, se però le loro origini sono napoletane allora non avranno problemi a riconoscerlo.

E al di là di questa bellissima cosa che è la napoletanità che è un discorso a sé, quelle lacrime, quella storia, quei rimpianti, quell'omino chiamato Napoli, in quel particolare momento storico ebbero il valore di un segno, il segno che conferma una dubbia decisione.

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