sabato 31 agosto 2013

Cinquantaquattro


Qualche tempo dopo arriverà anche uno di quei segnali che, se sei consciamente o inconsciamente predisposto in una certa direzione, ti aiutano a perseguirla con più convinzione. Sono piccoli segni, a volte dettagli, a volte sono enormi, ma se non sei predisposto non li cogli neanche così, a volte sono segnali che ti vengono dall'esterno senza che tu faccia niente e devi soltanto codificarli, a volte risultano molto spiacevoli e in quelle occasioni devi compiere un grande sforzo per accantonare il negativo e riuscire a distinguerli, altre volte li stai cercando senza aspettarti di incontrarli ma, imprevisti, appaiono.
A volte sono solo incontri. Incontri normali o incontri surreali che sia.
Era un pomeriggio qualsiasi di un giorno qualsiasi nella monotonia di un giorno senza lavoro a Dimbulah. Napoli era al bar. Eravamo in casa ammazzando il lento scorrere di quel pomeriggio. Napoli stava bevendo. Eravamo in Australia a meno di un chilometro da Napoli ma in quel momento non ne eravamo consapevoli. Poi le sirene. Cos'era? Ambulanza, polizia e pompieri tutti insieme? Qui dove il treno settimanale è un evento eccezionale, qui che quando siamo in giardino a selezionare frutta e passa un bambino in monopattino o Gesù in carrozzella (Gesù è un vecchio spagnolo barbuto che ormai ha imparato l'italiano e si ritrova a chiacchierare con i vecchi italioti locali intorno al tavolino fuori dal supermercato in vece della nostrana usanza di ritrovarsi al bar), qui che quando succede qualcosa alziamo lo sguardo e rimaniamo a fissare questo movimento che spezza l'immobilità, qui dove una sirena di un'ambulanza fa voltare tutti i paesani presenti, qui il suono di tante sirene significa qualcosa di incredibile. Siamo usciti e dal pub/hotel del paese arrivavano strane urla. Noi sbirciavamo, Napoli beveva. Ci siamo avvicinati con quel fare circospetto dei curiosi che cercano di apparire come fossero lì per caso. Le sirene, le urla venivano dal parcheggio dove erano radunate una ventina di auto un po' d'epoca, un po' modificate, tutte personalizzate, sicuramente strane. Dalle auto uscivano personaggi dei cartoni animati o rotolavano fuori barcollando uomini sudati e vistosamente ubriachi. L'evento in sé non aveva nulla di eccezionale per chi di auto d'epoca e di uomini ubriachi ne ha visti a bizzeffe. Più tardi, a furia di chiacchierare con personaggi dei cartoni o con ubriachi ci è venuta sete e siamo entrati.
Al bancone c'era un omino minuscolo in camicia a maniche corte, pantaloncini e berretto, da dietro a prima vista sembrava un bambino, ma la pelle era vecchia e con peli bianchi. L'omino parlava con un grosso australiano che non pareva prestargli attenzione, l'omino nominò Napoli e io dissi qualcosa in italiano a riguardo. L'omino si girò e iniziò a cantare.
Avevamo trovato Napoli. L'omino che nominò Napoli era giustappunto Napoli. Era l'unico immigrato napoletano della zona, era arrivato con l'ondata di migranti di una cinquantina d'anni fa. Si chiamava Quirino ma tutti lo chiamavano Napoli. L'omino cantò in napoletano con l'aria melodrammatica dei nativi di quella città. Poi scoppiò a piangere. Fa sempre uno strano effetto vedere un anziano sconosciuto piangere, il cuore si stringe e rimani in una buffa posizione di avvicinamento come se ti stessi slanciando in abbraccio ma poi ti blocchi e pensi “lo faccio?” e lui ti aiuta e, benchè ubriaco, cerca barlumi di lucidità e trattiene per quanto può le lacrime. Il solo fatto di avergli prestato attenzione lo commuove, poi si riprende, canta di nuovo, smette, racconta la sua storia e qui le lacrime gli piovono sulla faccia finchè non riusciamo a cambiare argomento, poi insiste per offrirci una birra per ringraziarci per averlo ascoltato. La sua è un'altra storia di solitudine, di profonda solitudine.
Brevemente.
Così basso di statura, ma orgoglioso come sono i napoletani è cresciuto rissoso per difendersi dalle offese sull'altezza, era il più piccolo di quattro figli, quello meno ubbidiente, le tre sorelle erano più tranquille. La situazione italiana era di estrema povertà, la povertà che spinse migliaia di italiani a imbarcarsi in nave per altri lidi compreso il viaggio di oltre un mese verso l'australia, questa che allora era più che mai sconosciuta. Crescendo passò qualche tempo a Roma, poi intorno ai vent'anni si trasferì per lavoro in Germania, in Italia suo padre morì, lui lasciò il lavoro e tornò a Napoli, la situazione di povertà era la stessa, qualcuno gli propose di andare in australia, allora Napoli era un ventitreenne “senza troppa capoccia” come ci disse, non ci pensò su, partì, lavorò nei campi, si sposò, ebbe delle figlie, divorziò, rimase solo, iniziò ad odiarsi (e a bere), a definirsi il più grosso degli stronzi per aver lasciato le sue sorelle con cui tuttavia si sentiva tutti i giorni, per aver lasciato sua madre senza più tornare, sua madre che nel frattempo era morta così lontano da lui e, non da ultimo, per aver lasciato Napoli. Napoli rimpiangeva di essere partito, era la persona più pentita di questa scelta che avessi trovato in australia, Napoli di diverso da tutti aveva che veniva da Napoli. Ora io non so come questa città possa prenderti l'anima, Napoli (città) non la conosco abbastanza, ma ogni volta mi sorprendo di come chi vi nasce vi resti attaccato per sempre, mi sorprendo di questo cordone ombelicale che non si strappa neanche a così grande distanza. Credo che tutti gli ex italiani arrivati anni indietro, per quanto alcuni non lo ammettano, sentano la mancanza di quanto di bello il nostro piccolo stivale ha da offrire, se però le loro origini sono napoletane allora non avranno problemi a riconoscerlo.

E al di là di questa bellissima cosa che è la napoletanità che è un discorso a sé, quelle lacrime, quella storia, quei rimpianti, quell'omino chiamato Napoli, in quel particolare momento storico ebbero il valore di un segno, il segno che conferma una dubbia decisione.

venerdì 30 agosto 2013

Cinquantatre


Sul far della sera ridevano i laughing jackass
E di notte i gechi sembravano imitarli.
Altri uccelli imitavano il miagolio del gatto o il passaggio del treno
Lei imitava le frasi sconclusionate di Patch
Io imitavo “amici miei” e a Patch facevo supercazzole a ruota
Tutti imitiamo qualcosa
La vita imitava se stessa nel suo tratto più affascinante
Ma le imitazioni durano giusto il tempo di stancare
E un po' di più. Poi succede qualcosa

A me piacciono gli animali ma non ho lo stesso spirito compassionevole che ha lei che in effetti è prerogativa perlopiù femminile. É così che una sera, quando lei non c'era, Patch mi ha chiamato per mostrarmi in segreto ciò che inseguiva da tempo. Erano giorni che papaie e avocadi, colpevolmente dimenticati in giardino, recavano segni di morsi che non erano quelli caratteristici del lungo e sottile becco dell'ibis ghiotto di papaie; questi morsi erano ben più larghi e si notava il segno di denti. Non era un uccello quello che Patch cercava e che aveva finalmente intrappolato, era un opossum.
Me lo mostrò di notte alla luce di una delle torce che aveva sempre con sé, come di consueto non riuscì a condividere ciò che per me era eccezionale, così, dopo un paio, forse cinque secondi, era già tornato in casa lasciandomi al buio a contemplare il tremolante e timoroso silenzio che bucava le sbarre e pervadeva il nero.
Come promisi a Patch, sul momento non le dissi nulla e andai a dormire col flash dell'opossum ingabbiato e indifeso e immobile ma con strani movimenti all'altezza del ventre.
Quella notte sognai molto.
Sognai l'opossum in gabbia, sognai che era una femmina e che aveva un cucciolo molto lungo e molto sottile tanto da riuscire a passare – il piccolo – attraverso i reticoli della gabbia e avvertire il padre dell'accaduto (il padre era un distinto opossum un po' vecchiotto con bastone e cilindro e con qualcosa a quadri, forse i pantaloni, forse un gonnellino scozzese). Non mi sono soffermato troppo su significati freudiani, qualora ce ne fossero, del sogno per due motivi. Il primo era che il senso generale della visione era abbastanza chiaro: l'opossum andava liberato. Per questo avevo bisogno di lei per convincere lui, lui che mi aveva confessato la tentazione di sparare a lei (all'opossum) anziché sprecare benzina per liberarla lontano. Così semplicemente la mattina le dissi di andare a vedere la gabbia senza rivelare chi glielo avesse suggerito. Quella mattina, oltre a riuscire nell'intento grazie alla sua compassione e al suo sorriso, avemmo conferma del mio sospetto: nel marsupio c'era davvero un cucciolo, sporgevano zampe e coda, il poppante fu un motivo in più per dimostrare clemenza e ottenere la grazia. Del padre con gonnellino scozzese non c'era però traccia. Ovviamente.
Il secondo motivo per cui liquidai sbrigativamente quel sogno era un altro sogno che mi lasciò molto più irrequieto. C'erano sempre animali, ma ciò che mi turbò fu la sensazione con cui mi risvegliai. Fu una di quelle volte in cui nel sogno si prende coscienza di qualcosa, uno di quei sogni che ti scuotono dal torpore.
Nel secondo sogno ero su uno scoglio e sotto di me, in acqua, vedevo chiaramente mante giganti e pesci sega muniti appunto di sega elettrica ma evidentemente innocui e tra loro c'erano un paio di persone che facevano snorkeling. Era sera, era troppo tardi per buttarmi, così pensai - nel sogno - che l'avrei fatto il giorno seguente e mentre me ne andavo fui colto da quella sensazione che mi rimase poi anche al risveglio: il giorno dopo i miei giorni di visto ancora a disposizione sarebbero terminati. Mi svegliai con questa sconfortante sensazione: tutto stava per finire!
Guardai il calendario, non mancava un giorno ma due mesi ma quello che avevo imparato era che due mesi d'australia scorrono veloci come pochi giorni.
Era tempo, è tempo, sarà tempo per questi due mesi (che ora sono già un mese e mezzo) di iniziare a pianificare il futuro, un altro viaggio, un altro aereo, un'altra tappa in asia, un ritorno a casa o un ritorno in australia senza working holiday ma con uno student visa con tutte le sue limitazioni e i suoi costi.
É tempo di pensare a quel futuro a medio termine che in questi dieci mesi avevo accantonato concentrandomi sul breve termine, sulle innumerevoli quanto inaspettate situazioni che accadevano con cadenza settimanale e alle quali cercavo di adattarmi per ottenere il meglio.

É tempo di decidere.

sabato 24 agosto 2013

Cinquantadue


Le settimane scorrevano troppo veloci, ogni settimana che con risoluzione decidevamo sarebbe stata l'ultima accadeva qualcosa che ci faceva desistere. L'organizzatrice del rodeo, entusiasta per come pulivamo di mattina presto il suolo dai relitti alcolici della sera prima, ci propose di piccare lime nei giorni seguenti. Ovviamente accettammo. Saremmo stati ancora da Patch senza esserci troppo a stretto contatto e allo stesso tempo “facendo moneta” come diceva lui.
Perchè stavamo ancora da Patch non è facile spiegarlo. Non era solo per il fatto di azzerare i costi di vitto e alloggio, non del tutto. Credo fosse collegato al bisogno di avere un luogo da chiamare casa, dove svegliarsi e dove ritornare la sera, dove cercare di mettere un pizzico di radici. Perchè lui non ci cacciasse benchè il nostro tempo a disposizione per lui fosse drasticamente calato credo sia riconducibile al concetto di solitudine. Aveva divorziato dalla moglie e in un certo senso anche dai due figli, la femmina si era sposata e aveva cambiato città, il maschio abitava qua vicino ma non si vedevano mai. Noi eravamo i suoi surrogati di figli, noi lo ascoltavamo nei suoi deliri, e lo aiutavamo in tutto, eravamo quello che i suoi figli non erano stati, ma noi non avevamo alternative e noi eravamo solo di passaggio. Aveva anche una fidanzata con la quale presumo riuscisse ad avere un buon rapporto perchè la maggior parte del tempo erano lontani, molto lontani, lei era in Inghilterra. Il suo carattere scontroso lo aveva isolato in una casa vuota durante la settimana, mentre si circondava di gente di passaggio nel fine settimana al mercato e in ostello, ma quella gente non erano amici, erano clienti e backpackers avventori occasionali.

Per questo credo ci telefonasse, anche quando non lo accompagnavamo, per raccontarci i piatti cucinati o l'esito del mercato. Eravamo diventati i suoi amici e i suoi figli ideali.

Cinquantuno


L'essenza dell'australia più cruda e più rurale è nei rodei: uomini, cavalli, vacche, tori e polvere. Gli uomini (intendendo anche donne e bambini) hanno un solo rigoroso stile con il quale ama identificarsi l'uomo della campagna, cavaliere e vaccaro allo stesso tempo: tutti indossano stivali, jeans wrangler a vita alta, camicia a quadri o a righe infilata nei pantaloni da cui è divisa da un cinturone e infine c'è l'immancabile cappello texano a tesa larga (gli alternativi con la tesa stretta a fine serata saranno marchiati da una ridicola abbonzatura: bianchi sopra e rossi da metà naso in giù). Devo ammettere che oltre noi, c'è una donna che fa eccezione allo stile, ma il fatto che la donna in questione giri per il rodeo con un cerbiatto al guinzaglio suscita dubbi sulla sua sanità mentale.
I cavalli sono gli amici fedeli con cui questi uomini prendono confidenza sin da bambini. Ogni farmer ha in media due cani, molto spesso di aspetto spaventoso ma sempre docili, due figli e mezzo e cinque o sei cavalli (la media di questi ultimi aumenta se si tiene conto delle farm di bestiame). Si il cane è fedele, fa compagnia, i figli saranno i vaccari del futuro, ma è il cavallo il mezzo con cui dominare mandrie di bistecche ambulanti.
Ma l'uomo di campagna è forte e rude come marlon brando e ciò che fa al rodeo è anche dimostrare come possa cavalcare mezza tonnellata di toro imbufalito o domare un toro – benchè più piccolo – prendendolo per le corna e torcendogli la testa di 180° per metterlo a tappeto. Ho scoperto quanto il collo dei tori sia flessibile e quanto sia dura la testa delle vacche quando per scappare dagli uomini a cavallo si infrangono sulle sbarre di recinzione senza subire traumi apparenti. 
Per noi turisti/fruttaroli dopo il primo eccitante giorno, il tutto ha assunto un contorno familiare, al terzo giorno ci stavamo annoiando, al quarto siamo fuggiti.
E quello che è rimasto è polvere, tanta polvere...





















Anche quest'evento ci è stato gentilmente offerto dalla nostra voglia di lavorare e, al contempo, vivere appieno un'esperienza di autentica australia.

giovedì 15 agosto 2013

Cinquanta


A forza di vedere, osservare, scegliere, catalogare, impacchettare, vendere, cucinare, mangiare, bere tutta questa frutta e verdura sono arrivato a saturazione. Vorrei solo un po' di pane, ma non quello molliccio da sandwich che mi ha stufato, pane vero, cotto a legna con la crosta croccante. E nonostante mi stia passando la voglia di mangiare frutta e verdura, ho più desiderio che mai di rimettermi a coltivare l'orto, ma non l'orto di qualcun altro, il mio orto.

Quarantanove


La pazienza che abbiamo cresce gradualmente nelle distanze percorse e nel tempo trascorso con personaggi surreali ed è anche quella – la pazienza - che ci permetterà di vedere da molto vicino ciò che loro chiamano platypus e noi ornitorinco. A Yungabarra c'è un ponte sul fiume famoso per la presenza di questi animali (c'è anche una pizzeria italo-svizzera che fa una pizza molto buona e che è stata allestita come una baita alpina; se non fosse per il platypus-turismo probabilmente la pizzeria sarebbe semivuota ma Nick il gestore svizzero ci ha visto lungo, eccetera eccetera...e siamo di nuovo sulle orme di Ulisse eccetera eccetera...). Yungabarra è vicino, è a soltanto un'ora e mezzo di macchina da Dimbulah e in un giorno di libertà facciamo questa scampagnata.
La pazienza che abbiamo ci permetterà di vedere l'ornitorinco dopo averlo atteso in silenzio con calma buddista e spirito zen per ore sulla sponda di un fiume. Come detto, il fiume è noto a tutti per la presenza dell'animale, ma la maggior parte dei turisti passa, si ferma cinque minuti a scrutare l'acqua torbida e placida, chiede se qualcuno l'ha visto e riparte delusa. I turisti che attendono con pazienza da ore rispondono scocciati di no (anche se l'hanno appena visto).
Servono molta pazienza e/o molta fortuna.

Se si ha fortuna si arriva al momento giusto e lo si vede emergere dalle acque torbide, restare per qualche secondo sul pelo dell'acqua, nuotare sgraziato e buffo e poi reimmergersi con eleganza e con questa sequenza spostarsi lungo la parte di fiume visibile al modesto pubblico. Se si ha pazienza la visione sarà la stessa condita da due minimi particolari: da una parte la sintonia che si creerà con la natura circostante permetterà di considerare il buffo animale ben più di una sorca con il becco blu da papera che qualcuno descrisse come la dimostrazione che dio ha il senso dell'umorismo, dall'altro la lunga attesa farà crescere un appetito enorme da placare con sommo piacere al ristorante suddetto.




lunedì 12 agosto 2013

"Quarantotto" come diceva Pavel


Patch solleva cassette di frutta da 5, 10, 20 kg ogni giorno, Patch ha grossi polpacci e braccia muscolose, un fisico invidiabile per un sessantenne, se non fosse per una rotonda pancia alcolica.
Quando Patch guida il camion il morso inverso si nota di più e ricorda Braccio di Ferro. Soprattutto se nel frattempo sta fumando le sue sigarettine di damiana.
Patch per vedere se le tagliatelle sono cotte ne prende una e la tira contro la parete, secondo lui se si attacca è pronta, se cade dietro il forno elettrico dove non può arrivare e neanche se ne cura tanto di arrivarci, allora deve ancora cuocere. Inutile dire che dietro quella stufa ci sarà un etto di pasta al dente, a meno che non piaccia alle blatte.
Nel giardino di Patch cresce ogni sorta di pianta senza alcun senso logico e il suo metodo, seppur funzionante, mi lascia perplesso soprattutto per la puzza di frutta e verdura in putrefazione: quello che fa è limitarsi a prendere il cibo in avaria e rovesciarlo in giardino dove prima o poi rinascerà come pianta.
Dopo una decina di giorni anch'io getterò con gusto resti in punti casuali del giardino.
Dopo un mese, quando lui non ci guarderà, mentre selezioneremo i pomodorini buoni, io e lei ci tireremo pomodori marci addosso.
Patch stricia le infradito sul suolo senza alzare i piedi da terra e questo è l'unico segnale che anticipa di poco la sua comparsa, dopodichè inizia il monologo.
Quando entri nel suo giardino sei investito dalla puzza di marcio, poi il cervello fa una cosa di cui non ti accorgi nell'immediato, ma la noti a posteriori (e lo ringrazierai per questo), quello che fa è collegarsi all'input visivo e, all'approssimarsi di quel giardino, ogni volta futura, lui – il cervello – spegne l'olfatto.
A posteriori capisco anche da cosa deriva la scarsa voglia che abbiamo di dialogare con il prossimo: non dipende soltanto dal bisogno di silenzio, che comunque è innegabile, ma è anche collegato alla sua incombenza su di noi, un senso di possesso, come fossimo i suoi figli ebeti, come quando mia madre usava presentarmi ad illustri sconosciuti (per me), personaggi più o meno autorevoli che magari mi sarebbe anche piaciuto conoscere ma in una diversa situazione, non certo nell'essere introdotto da quest'eccentrica signora come il figlio che ha fatto questo e quello, come si trattasse di una situazione perpetratasi lungo questi trent'anni di presentazioni, come se ad ogni mano stretta dopo la presentazione non mi fossi mai evoluto, mentre mi evolvevo da solo, in questi trent'anni di materne presentazioni ho sempre conservato lo stesso imbarazzo e la stessa sensazione di trovarmi fuori luogo, così succede con lui, tutti ci associano a lui, sia i ragazzi in ostello nel momento di massimo splendore quando sforniamo piatti eccezionali per qualità rapportata a prezzo, sia gli uomini in paese, o ancora in ostello quando nei momenti meno gloriosi ci insegue per la cucina comune per farci mangiare quei miscugli artistici sempre al limite della sottile linea di demarcazione che separa sperimentazione innovativa da miscuglio immangiabile, o quando al mercato o nelle varie farm che gira si intromette o non ci lascia parlare affatto perchè si è convinto che abbiamo problemi con l'inglese (come se in dieci mesi qua fossimo andati aventi a gesti).

Ancora una volta mi chiedo se sia io quello strano, ma quando invita tre ragazze italiane, backpackers che lavoricchiano in paese (per poi farsi bello nei giorni a venire con gli avventori del pub per aver sfamato cotante donzelle) le tre, quando la cena non è ancora a metà, ci prendono in disparte e ci chiedono come riusciamo a convivere e di nuovo mi consolo. 

venerdì 9 agosto 2013

Quarantasette


“Aspetta un attimo” ci aveva detto e noi abbiamo aspettato aperti a ogni sorpresa che il destino australiano ci avrebbe riservato.
E poi siamo entrati in un vortice di parole in dialetto veneto e espressioni in disuso “quello è un macaco”, “quello è andato ramengo”, “questo ha fatto moneta ma è un tirapiedi”. E le parole sono un fiume, non so se quando è solo pensi a voce alta, ma con noi dà fiato a tutti i pensieri e stargli dietro è un'impresa ardua perchè – come sono i pensieri – non hanno logica. E dopo una settimana ti gira la testa,
Abbiamo anche provato a mettere ordine nel suo caos di parole e oggetti laddove sembrava impossibile, ma non-
Patch è tutto e nel tutto c'è molto di negativo.
Ha i pregi e i difetti - e questi si notano di più – dei padri, ma è anche un ragazzino nel corpo di un sessantenne, si nota
Dimbulah è un altro paese che sorge ai lati di una strada principale, di fianco alla strada corre la ferrovia che non ha passaggio a livello ed è obbligatorio fermarsi allo stop prima di attraversare; in tre settimane ho visto passare il treno una sola volta di mercoledì, un solo vagone, molto lento. Poi ho scoperto che il mercoledì è l'unico giorno in cui il treno passa per qua, ma lo stop si deve fare comunque sempre. Venti giorni su tre settimane sono stati scanditi da stop insensati. Eppure la legge prevede
Dimbulah ha meno di 500 abitanti e Patch è uno dei più caratteristici, di sicuro è l'elemento più dinamico in una realtà statica, purtroppo il suo dinamismo è fatto di scelte di tempo perlopiù sbagliate.........
Qui tutti si conoscono ma non tutti si parlano. Patch, che ha sangue veneziano, è un mercante molto permaloso e, per screzi risalenti a anni addietro che ricorda con puntuale precisione, ha deciso di troncare in modo definitivo i rapporti con una metà dei compaesani, mentre con l'altra ha splendidi rapporti (splendidi va inteso, nella maggior parte dei casi, con intrecci lavorativi e gente che nel tempo ha imparato a non ascoltare i suoi monologhi).
Sopportarlo significa prestare attenzione a non più del 10% delle cose che dice e ripete e ripete e ripete e ripete e ripete e ripete e rip
Se la mattina ti svegli con un velo di mal di testa, imparerai che, vivendoci così a stretto contatto, il dolore aumenterà gradualmente e il Moment farà il suo dovere con straordinaria lentezza
Patch,
Noi non siamo persone troppo loquaci, ma siamo curiosi e ci piace sapere e conoscere storie, ma dopo la prima settimana in cui abbiamo imparato molto su piante e frutti tropicali, sulla comunità che cinquant'anni fa si trasferì qui dal nord italia e fece fortuna coltivando tabacco salvo poi dover riconver
L'album che raccoglie le foto e le storie delle famiglie italiane che vennero qua in una seconda colonizzazione e il cimitero del paese con tutte le lapidi con nomi italiani e molto spesso anche le scritte, tutto mi fa pensare a
Ogni discorso tagliato, ogni post iniziato e non finito, ogni volta che trovavo un attimo in cui il suo impeto si placava, in questo assurdo woofing che è lavoro sempre e mai che dura più di dodici ore al giorno e mi lascia pochi minuti d'aria, ogni volta che iniziavo a pensare e scrivere, ogni volta il suo impeto tornava più invadente che mai e il mio flusso di coscienza mor
Moriva anche la nostra voglia di parlare con altri esseri umani, che fosse in inglese o nella nostra lingua madre. In quei giorni in cui affogavamo in quell'oceano di parole impetuose, cercavamo solo silenzio. Anche quando non eravamo con lui (dal momento di chiuderci in van per dormire alla mattina dopo), eravamo come intontiti e ci sussurravamo appena “
Dopo tre settimane anche cucinare per l'ostello, che era una cosa che in principio mi gasò tantissimo, dopo quel tempo e in una cucina stretta come quella, anche cucinare che mi piace sempre, si stava facendo pesante. Comunque riuscivamo sempre a produrre piatti splendidi, le tapas colorate e azzeccate di lei, i miei primi essenziali ma gustosi di italica tradizione, i suoi secondi in cui mischiava frutta, pesce, carne e verdure in accozzaglie -devo ammetterlo – azzeccate nel gusto e gradevoli nella presentazione. Ricordo il primo piatto preparato il primo giorno in cui cucinammo insieme: era il primo cliente, non avevamo fretta, lui aveva fatto il piatto, io l'avevo guarnito con tocchi di colore rubati ai ristoranti dove avevo lavorato in precedenza, il piatto era perfetto, lui era agitatissimo, il piatto era troppo bello, lui nell'andarlo a consegnare alla cameriera si schiantò contro il muro, il piatto finì sul pavimento, lui era andato sul pallone, io gli dissi solo “rifacciamolo”.

Anche i tre giorni che trascorrevamo in ostello, per il mercato e per cucinare a Port Douglas, in uno dei migliori ostelli finora incontrati in australia (parrot fish) si stavano facendo pesanti. La realtà che avevo velocemente rinnegato nei tuguri di Perth si ripresentava anche se con minor disgusto. Dormire in camere da letto da sei con persone con orari diversi che accendono la luce in piena notte o che dormono con la porta della stanza aperta per far circolare la puzza di piedi, il fancazzismo giornaliero, la dipendenza da social network, erano situazioni che mi avevano stancato già nove mesi prima. Avevo solo voglia di van. Forse son vecchio per gli ostelli o forse il van dà dipendenza. Avevo voglia di van e di una cucina senza padrisupergiovani o chef schizzati

Quarantasei


Il piano prima di incontrare Patch Adams prevedeva un paio di giorni a Cape Tribulation e, al ritorno, una gita sulla barriera corallina. Era un buon piano specie in considerazione dello sconto che ci avrebbe fatto il coinquilino dell'amica ritrovata che lavora su una delle barche preposte ai tour. Semplice e economico.
Ma poi...

Ora, dovendo tornare verso Mareeba il piano potrebbe non solo essere sospeso, ma rischia di naufragare per non incagliarci troppo in questo pezzo di strada.

giovedì 8 agosto 2013

; quarantacinque


Port Douglas sembra Miami o qualche località di villeggiatura per ricchi con i suoi resort e hotel di lusso (il western australia le coste del western australia sembrano lontane più che mai) ma negli ostelli/caravan park - che sono un paio - si nasconde, ammucchiata in tende ammassate una sull'altra, tutta la manovalanza dei backpackers che pulisce, cucina e sparecchia per i ricchi turisti in vacanza. Dopo aver trascorso pochi giorni nel parcheggio di un'amica ritrovata da Perth, decidiamo che il posto non può darci altro oltre ai bagni fatti e alle docce fredde sulla spiaggia.
Decidiamo di ripartire.
E ancora una volta la decisione appena presa deve cambiare in base al succedersi degli eventi. Al mercato domenicale incontriamo una sorta di Patch Adams di origini italiane che ci dice “aspetta un attimo” e l'attimo diventa tutto il lunedì trascorso a trasportare frutta a resort e parchi animali e fare spesa per la cena che cucineremo la sera per l'ostello a prezzi ridicoli.

É l'inizio di un'altra avventura.

domenica 4 agosto 2013

Quarantaquattro;


La strada scelta per arrivare da Mareeba a Port Douglas, sale gradualmente sino alla cima di Mount Malloy. Quanto siamo in alto rispetto al livello del mare si intuisce solo scendendo tra tornanti e controtornanti che si alternano ripidi, finchè, a metà montagna, una curva si allarga in uno spiazzo panoramico da cui si vede il mare, che per noi non è mare qualsiasi, è oceano, ma nemmeno, è l'”altro” oceano. Perth, da dove avevamo preso la via dell'ignoto in un commovente giorno di fine aprile, si trova sulla parte più a sud della costa ovest australiana bagnata dall'Oceano Indiano, quello che invece si scorge tra le fronde di questo monte a nord della costa est è il Mar dei Coralli, è l'Oceano Pacifico. Più di due mesi e più di 10000 chilometri dopo, di fronte a questo panorama mozzafiato (per il suo significato più che per la bellezza) l'acqua che si estende all'orizzonte significa la fine del coast to coast scegliendo la via più lunga.
Nel sospiro di sollievo alla vista del mare c'è un fremito di commozione dentro il quale ci sono paure e incognite di un cammino lungo e incerto a bordo di un vecchio van attraverso deserti, caldo, piazzole di sosta in mezzo al nulla, attraversamento animali, taniche di benzina per le distanze più lunghe, taniche d'acqua, persone, amici, falchi, aquile, cani, canguri, wallaby, cinghiali, emù pesci delfini ragni serpenti formiche...

Siamo sempre più lontani dal punto di partenza che sia Perth o che sia Italia, l'acqua di fronte segna un punto di arrivo, ma il viaggio non è finito, ci sono ancora centinaia di km di questa costa da scoprire.

giovedì 1 agosto 2013

quarantuno-quarantadue-quarantatre


Ogni tanto in mezzo al niente, trovi il cartello historic site che indica, se sei fortunato, un pezzo di metallo, una botte arrugginita ritrovamento della seconda guerra mondiale. Questo è il massimo che possono offrire in fatto di storia. 
Quarantadue
Il Queensland è qualcosa di stupendo, passato Mount Isa la strada non è più piatta e dritta ma sale e scende. Da Mount Surprise, tutto inizia a farsi più verde sino a Ravenshoe dove il verde esplode impetuoso e i panorami, che dapprima mi rimandavano alla cara e lontana valle umbra, si tingono di tirolo fino ad acquisire tratti irlandesi, a sud di Ravenshoe c'è l'acqua vera con fiumi e cascate e un bosco che è ancora di più è una foresta pluviale. Ravenshoe è il paese più alto del Queensland: a 920 m.s.l.m. Il deserto è già un ricordo. Il verde di questi posti placa l'istinto omicida che sale verso il passeggero qui dietro: devo ritrattare: magari fosse mia sorella. Manca mezza giornata di clima teso e la scarico, posso resistere.
Mareeba dista 50km da Cairns ma noi tireremo su verso Cape Tribulation. Questo crocevia sarà la nostra ultima tappa insieme. Voglio vedere il mare dell'altra costa, dopo un coast to coast lungo più di 10mila km, voglio vedere quel mare con lo spirito giusto con l'animo sereno, respirare la brezza di un altro oceano con chi mi capisce e – in particolare – con chi capisco.
A Mareeba sembrava non volesse più scendere e io intanto giravo su e giù per il paese per trovare l'ostello, l'albergo, il caravan park più economico e lì farla scendere senza ricorrere alle maniere forti.
Poi l'imprevedibile, prima di salutarci ci offre anche una birra e mi sento io quello strano. Dopo nottate passate combattendo l'insana voglia di partire prima che si svegliasse, o di dare fuoco alla sua tenda con la tanica di benzina che usavamo come scorta, lei al momento dell'addio diventa cordiale come se avesse fatto un viaggio indimenticabile.
A parte la spiacevole convivenza, per noi, in un modo o nell'altro, è stato veramente così, è stata un'altra tappa di un viaggio indimenticabile, mentre per lei, la cui unica preoccupazione era avere campo sul cellulare, per lei non saprei. 
Lei credo non si sia accorta di nulla.

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