giovedì 31 gennaio 2013

Pork belly fields forever



Non hai le forze quando arriva l’ennesimo giorno di lavoro, quando si prospettano altre dieci ore di lavaggio piatti, quando il mal di schiena del giorno prima che avevi placato dormendo, ricaricandoti come fa il tuo telefono cellulare, quando quel mal di schiena che sembrava passato torna a farsi sentire una mezzora prima di tornare a faticare e sogni massaggi professionali o pillole che facciano sparire dolori, ma non è il momento – forse arriverà quel momento, ma non mezzora prima di tornare a faticare – e allora fai qualche esercizio di stretching in mezzo  a quella gente no worry per cui rappresenti bassa manovalanza, fai gli esercizi che facevi prima di entrare in campo e dare tutto e trovi un palo in cui strofinare la schiena come fossi un gatto, ma strofinarla forte là dove ti fa male – più dolore attutirà il dolore – mentre ti guardi le mani e i taglietti che stentano a rimarginarsi, poi entri ti cambi ti specchi al volo e nel gesto di cambiarti o nell’atto di specchiarti il cervello ti fa un regalo, ti somministra una scarica d’adrenalina che fa sparire per qualche ora – non tutte quelle per cui lavorerai – il dolore e sei pronto e pensi a quello che dice elia che sta in cucina che quando passa ti dice “ci rifaremo” e sei pronto ed entri e ad aspettarti ci sono dei “ciao come va?” a cui non interessa risposta e puoi rispondere solo “ciao” e ad aspettarti c’è anche una pila di piatti piani sporchi, piatti cupi e sporchi, piatti di legno sporchi, padelle e pentole sporche-e-bruciate-e-incrostate e tu li guardi, per un momento tutti, poi con lo sguardo li sezioni, capisci da quali iniziare e ti attacchi a quel tubo che scende dal muro che sputa quell’acqua bollente che i primi giorni ti lessava l’altra mano, quel tubo che odiavi e che ora invece rappresenta la tua ancora da lì a fine giornata – un’ancora all’insù che sorregge le tue debolezze – e ti ci attacchi come un tarzan moderno che invece di urlare rimugina pensieri deliranti, canticchia, ma fondamentalmente pensa pensieri che si involvono: quelli esistenziali troppo complessi dei primi giorni richiedono troppa attenzione e lasciano spazio a pensieri rapidi folli, giochi di parole – “pork belly fields forever” ti provoca un impercettibile sorriso -, autoincitamenti e ogni pensiero è intervallato dalla prossima azione da compiere, da come ottimizzare il tempo e lo spazio da come uscire prima possibile da quella cucina e da come ricaricarti a letto – fanculo la paga oraria, quello che si prende è già abbastanza.

venerdì 18 gennaio 2013

Settimana delle salviette per bambini Comfy bots baby wipes Coles - intermezzo



Tempo fa lessi un interessante articolo su usi e costumi in giro per il mondo, riguardo un argomento di cui raramente si parla: il pulirsi il culo. Nello specifico l’articolo si concentrava sulle difficoltà che incontra un’azienda produttrice di carta igienica nell’assecondare le differenti usanze nello strofinio: c’è chi la piega in quadratini, c’è chi l’appallottola e altro che non ricordo, ma non credo ci siano molte alternative (a questo punto la domanda sarebbe: e tu come la usi? Ma non voglio indagare). Quest’azione, questo differente utilizzo, era ciò che più turbava la casa produttrice, che, ad ogni atto di pulirsi il culo, doveva di fatto associare una differente combinazione di più o meno strati per garantire resistenza, di maggiore o minore ruvidezza e via così, il tutto per dare il massimo piacere e la massima pulizia al consumatore finale. Non voglio entrare più nel dettaglio delle azioni di marketing intraprese da compagnie di carta igienica, la premessa vuole introdurre il gravoso problema che l’italiano deve affrontare ogni volta che si reca all’estero. Il nostro bidet sembra essere un oggetto misterioso fuori nazione, tanto che alcuni pensano che sia il cesso dei figli, o vasca per nani, o la vaschetta per far bere il cane. Non ho visitato così tanti posti nel mondo, ma ricordo di non averne trovati in Francia nonostante il nome rimandi alla lingua francese; in Portogallo ne ho trovati e mi sono stupito del loro utilizzo come portariviste, in Spagna non ricordo, ma i due coinquilini mi hanno rivelato che – seppure non troppo diffuso – sia un oggetto presente, destinato all’uso femminile, naturalmente (?). In Australia, dove la carta igienica viene utilizzata un po’ per tutto, ci si pulisce le parti intime, o ci si soffia il naso, o si sgrassa la bocca a tavola (non con lo stesso foglio e, se proprio dovesse capitare, non in quest’ordine), il bidet non esiste. Esistono però due bagni: il bathroom e la toilet: nel primo ti lavi (essenzialmente è costituito da doccia e lavandino), nel secondo espleti (c’è solo il sempreverde cesso). In una casa in cui convivono più di tre persone avere i due bagni separati è un vantaggio in quanto calano le probabilità di trovarli occupati entrambi, naturalmente se devi lavarti non lo farai al cesso e se devi espletare non lo farai nel lavandino (si spera). D’altra parte rimane il problema della freschezza anale dopo aver defecato tanto cara agli italiani. Per ovviare a questo increscioso problema, una soluzione, che voglio magnanimamente condividere, è quella di andare nel reparto bimbi dei supermercati e comprarsi una bella scatola di salviette umidificate, quelle per lavare i bambini. In caso di imbarazzi alla cassa, si può fingere di avere un figlio sporcaccione, ma generalmente in australia nessuno si stupisce di niente, anche se è sempre meglio utilizzare le salviette lontano dalla vista di terze persone, ma anche di seconde. Per quanto mi riguarda, a conclusione di quella che potrei chiamare “la rubrica dei consigli pratici per la sopravvivenza in australia”, personalmente, per l’ottimo rapporto convenienza/praticità/freschezza/quantità, mi sento di consigliare le salviette per bambini Comfy bots baby wipes Coles. P.S. ovviamente qualche genio del marketing fatto in casa ha trovato una soluzione alternativa per gli italiani più veraci: il bidet portatile da applicare sopra la tavoletta del cesso, ma mi oppongo e non fornirò maggiori dettagli se non lo slogan enigmatico che riporta il sito “Ideale anche quando il bidet di casa diventa scomodo perché troppo basso.”. Per maggiori info cacatelo su google














martedì 15 gennaio 2013

Il van non è il mezzo, è il messaggio



Lo trovi parcheggiato là fuori, tra le auto degli altri inquilini, con l’aria sorniona e indifferente. Se ne sta lì nel suo blu scolorito che aspetta, immobile. Quello che aspetta sono strade dritte, deserti, spiagge, vernici colorate, sabbia sotto le ruote e polvere sulle fiancate e gente con in testa un sogno, un’idea, un progetto, o anche niente. Il van non è solo un mezzo, il van è il messaggio.
Immediati voli pindarici, avventure fantastiche si materializzano nella mente, il pensiero va alla voglia di partire senza una meta precisa e continuare a scoprire questo grandioso continente.
Poi il pensiero torna lucido e ti domanda “di chi è?”
Basta entrare in casa e, dalla fibrillazione che c’è nell’aria, capisci subito che la risposta arriverà immediata. Il furgone è dei francesi e la loro partenza non mi scuote troppo perché, purtroppo,  in un mese sono riusciti a confermare tutti i luoghi comuni che affollano l’italia sui cugini d’oltralpe e a cui ho sempre cercato di oppormi, per un amore incondizionato per alla loro lingua e cultura. Il problema è che da lì a due settimane si porteranno dietro anche Gabriel, il ragazzo cileno a cui ci stiamo affezionando troppo.
In una serata in cui contingenti fattori hanno fatto ritrovare più della metà degli inquilini intorno ad un tavolo apprendo la notizia della partenza e decido che il giorno seguente, domenica, è il momento di farci portare da Jhonny al casinò che tanto gli piace, dove, se ti rechi lì con l’autobus, non paghi l’ingresso e hai il buffet del pranzo gratis e dove con un dollaro ne ha vinti 1700 esplodendo in un timido “uao”. Tutto è deciso. Sale l’entusiasmo per quest’esperienza collettiva con i coinquilini con cui abbiamo scoperto affinità elettive: noi, gli spagnoli, un taiwanese, un cileno si andrà a prendere l’autobus colmo di una marea di vecchietti appassionati del bingo.
Tutto è pronto ma poi ancoraunavoltatuttocambia.
Il coinquilino del taiwanese ha strane punture sul braccio, sembrano di zanzare, prudono in modo simile, ma sono troppo fitte. L’esperta di insetti della casa decreta che si tratta di bed bugs, minuscoli insetti che infettano letti, vestiti, tutto quello che si riesce a stipare in una stanza. Sotto l’orchestrazione dell’esperta, i due inquilini della stanza infetta infilano tutti i vestiti in buste di plastica per portarli a lavare il giorno seguente, la stanza viene sgombrata da tutto e i due passano la notte sul divano. La mattina dopo, Jhonny, che la sera prima ha preso l’impegno del casinò si alza in tempo con precisione orientale, ma è visibilmente provato dalla nottataccia, all’ora dell’appuntamento gli spagnoli ancora dormono, se si perde l’autobus non ce ne sono altri, con Jhonny decidiamo di rimandare al giorno seguente.
Ma qui non è facile pianificare neanche di giorno in giorno e perl’ennesimavoltatuttocambia.
Quella sera quando ci ritroviamo per la cena, scopriamo che Jhonny, dall’animo così buono, entusiasta per qualsiasi cosa gli proponessimo, il solo ad essere realmente attratto dal casinò, dal buffet e dall’autobus, ossessionato dalla ricerca di una farm dove fare i tre mesi e rinnovare il working holiday per il secondo anno e che ogni giorno mi comunicava di aver trovato una farm in qualche posto sperduto, alcune sospette che gli sconsigliavo, che quotidianamente aveva discussioni online con un suo fantomatico amico anch’esso perennemente alla ricerca di farm, Jhonny con i suoi “really??” e i suoi “oh my god!”, Jhonny ha deciso che il giorno successivo, si porterà via quella faccia tonda senza apparenti segni di preoccupazione, senza una grinza, solcata soltanto dal bianco lasciato dalle stanghette degli occhiali sull’abbronzatura, si porterà via i suoi dolci che preparava per tutta la casa, si porterà via la sua allegria, si porterà via Jhonny.
Niente Johnny, niente casinò. Il van con la sua aria pacata, fermo sul marciapiede, senza muoversi è riuscito a rompere l’incantesimo di un equilibrio che comunque non avrebbe potuto durare in eterno e i bed bugs ci hanno messo del loro.
Il van non è solo un mezzo, il van è un messaggio di cambiamento.

venerdì 11 gennaio 2013

Poi d’improvviso ne avvistano un’altra, ma stavolta scappi




 Il settimo giorno – non si tratta di giorni tra essi consecutivi, ma dei giorni in cui ci siamo recati in questa riserva naturale a sud di Fremantle – è un venerdì sera, c’è ancora tempo per un’ora di bagno prima che il sole si immerga nell’acqua. Con noi portiamo un pallone da calcio trovato a casa e un altro coinquilino a cui ancora non avevamo mostrato il posto. Siamo vicino al porticciolo dei pescatori, siamo in acqua a giocare a pallavolo, i pescatori sono più lontano, in fondo a quella striscia di asfalto che solca il mare per un centinaio di metri. Il sole scende lento. È ormai molto che siamo in acqua, quando sentiamo gridare, ci voltiamo e vediamo i pescatori in fibrillazione, uno di loro sta correndo con la canna verso la spiaggia, tra gli altri pescatori, che inseguono quello con la canna guardando dalla parte opposta rispetto a dove siamo noi, qualcuno grida “SHARK!”. Al secondo “shark” già stiamo correndo verso la terraferma, al terzo siamo fuori dall’acqua. Il pescatore è ormai sul bagnasciuga con una canna neanche troppo impressionante ma un mulinello enorme e un filo così spesso che taglia la luce del tramonto fino a perdersi in un punto imprecisato del mare. Tutti sono fuori dall’acqua, tutti sono intorno al pescatore. C’è solo un ragazzo in acqua fino alla vita di fianco alla traiettoria della lenza e serenamente, con un guanto e un paio di pinze, attende l’arrivo dell’enorme preda. Il pescatore è concentrato e procede in avanti sino a dove si spegne l’onda mare e torna indietro per una decina di metri, mentre lo fa riavvolge metri e metri di filo, è visibilmente provato, l’altro ragazzo è ancora lì che attende. Dopo un periodo di tempo che sembra lunghissimo, ma dev’essere non più di cinque minuti, di fianco al ragazzo in acqua si scorge distintamente la sagoma della pinna che non è quella romantica dei delfini. Sotto la pinna c’è uno squalo tigre di due metri e qualcosa. Incurante delle tante storie di attacchi che coinvolgono i surfisti di questa parte dell’australia, il ragazzo lo accompagna, fin fuori l’acqua. Come se stesse dando la precedenza alla propria donna all’ingresso del ristorante con la mano poggiata appena sopra il sedere mentre la invita ad entrare per prima, così prende il mostro per la pinna e lo fa accomodare sulla riva a riposarsi da questa lotta. Lo squalo sembra rassegnato ad aver perso, alla brutta fine che lo aspetta, a ritrovarsi diviso in pezzi da destinarsi ai mercati del pesce, sino a finire attaccato al collo di ragazzini australiani fanatici di denti di squalo. La poca resistenza che oppone si spegne dopo le manovre di sgombro dell’immenso amo dalle sue fauci, dentro cui armeggia tranquillo il ragazzo che lo aspettava. Dalla bocca dello splendido animale, divenuto innocuo, penzola qualcosa di rosso e vivo, sembra che abbia mezzo metro di lingua fuori, poi scoprirò essere lo stomaco. Quando lo squalo è libero dall’amo, il pescatore lascia che i pescatori asiatici posino vicino alla bestia ormai priva di vita per le solite foto con le dita a V, finchè egli stesso si concede la foto di rito da inviare a qualche rivista di pesca, come pescatore del giorno. L’esperienza è talmente fuori dalla mia immaginazione che mi trovo a scattare foto con il cellulare per fortificare la testimonianza dell’esperienza. E, ora che ha perso di pericolosità, azzardiamo anche noi e lo tocchiamo. Tutto vero, tranne che lo squalo con le budella penzolanti sia morto. Sempre lui, questo ragazzo australiano, moro, con gli occhi piccoli e neri e iniettati di sangue di chi vive in mare, con la calma di chi si trova nel suo habitat naturale, riprende l’enorme pesce e, tra lo stupore generale, lo riaccompagna in acqua tenendolo per la pinna, si immerge con lui, gli apre la bocca, manipola le interiora e le rimette a posto come fosse la cosa più facile al mondo, lo scuote, gli ricorda il movimento che deve fare per nuotare, e lo lascia. E lo squalo tigre da due metri e poco più, potenzialmente mortale, senza fare caso a colui che è ancora in acqua riparte verso il mare aperto. Non posso non parlare con il tipo, mi dice che lo squalo sta bene, che assolutamente non vogliono ucciderli, lo fanno “just for fun”, che non è il primo, che hanno tirato su anche squali martello, non ci voglio credere, uno squalo martello credo potrei abbracciarlo per percepire l’esistenza di una creatura tanto enigmatica.





giovedì 10 gennaio 2013

Tabù il gioco delle parole censurate



Quando dico in giro che nella casa in cui abito siamo in quindici, all’improvviso in tutti i volti si forma la stessa espressione di stupore, occhi e bocca si spalancano, è un’espressione incontrollata del volto, seguita da un lieve sorriso che denota la ripresa del controllo, poi ognuno, in base alle proprie credenze e filosofie, fa domande, esprime apprezzamenti o preoccupazioni e mi trovo a cercare di spiegare una delle situazioni migliori che mi potessero capitare, almeno finchè non è arrivato il van a rompere gli equilibri. Giustifico raccontando i rapporti che si creano, come si riescano a trovare persone con affinità molto simili, come sia una via di mezzo tra una casa e un ostello, ma, per molti aspetti, migliore di entrambi. L’ostello costa caro e non riesci a stringere rapporti così stretti con tutto quel via vai. La casa costa caro ed è una situazione troppo comoda e stabile per una realtà così sconfinata, con tutti questi panorami in cui entrare.
Sono a casa, canticchio una canzone dei Rolling Stones, una di quelle più famose di quelle che se qualcuno la sente la canticchia con te. Jhonny è in veranda che aspetta che l’ennesimo dolce che ha preparato arrivi a cottura, gli canto i Rolling Stones in faccia ma è come se gli stessi parlando in italiano, a lui che è taiwanese. Mi stupisco dell’ignoranza di un motivo famoso quasi quanto happy birthday, ma lui mi spiega che il governo, che la censura, che taiwan subisce l’influenza cinese. Sono cose che già conosco, ma sentirle dalla voce di un ragazzo che incontro in un paese diverso dal mio e dal suo e abbiamo un presente in comune, fa uno strano effetto. Va bene la censura che c’è anche a casa mia, va bene il basso posto che l’italia occupa in quanto a libertà d’informazione, ma i rolling stones, suvvìa! E i beatles? Sì qualcosa sì. Beatles sì, rolling stones no, è una metafora  dell’eterna lotta tra bene e male? Sopraggiungono coinquilini e inevitabilmente l’argomento si sposta sul sesso e le chiacchiere diventano quelle da bar che si fanno in italia quando non si parla di calcio, e inevitabilmente alcuni argomenti risultano ancor di più sconosciuti nonché imbarazzanti. Tabù o taboo. Proviamo a spiegare il senso della parola anche questa sconosciuta. Non conosci il nome di cosa ti opprime e se non ha un nome non sai cosa combattere.
Per un italiano dall’altra parte del mondo, le parole tabù diventano ben presto altre (perlomeno finchè non scopri il culo): prosciutto e mozzarella. Il primo ha prezzi talmente alti da essere accuratamente evitato al supermercato. Almeno finchè non scopri il culo. Scoprire il culo non significa prostituirsi per poterne avere una fetta, l’acquolina che provoca il solo pensiero non è ancora abbastanza, scoprire il culo significa scoprire nel reparto macelleria una vaschetta con tutti i culi degli affettati. Se hai culo trovi il culo del prosciutto a un prezzo ridicolo. Se hai meno culo trovi altri culi meno allettanti ma comunque saporiti. La mozzarella – per quanto leggerai quel nome su qualche formaggio – più semplicemente non esiste.

domenica 6 gennaio 2013

Poi d’improvviso la vedi



Il primo giorno vediamo la nuova casa, la tipa che la gestisce ci dice che dalla sua camera vede il mare. Ci sbrighiamo a pagarle una cifra irrisoria per fermare la stanza e andiamo a cercare questo mare così vicino. Vaghiamo un po’ con la macchina finchè non troviamo uno di quei segnali stradali marroni che indicano luoghi particolarmente interessanti, si chiama Jhon Graham Reserve. La stradina porta in un altro degli splendidi parchi che è così facile trovare qui, prato all’inglese, barbeque predisposti per abbrustolire chili di carne, ma quel primo giorno il parco non ci interessa, è solo il contorno del parcheggio. Tiriamo dritto e, percorsi neanche cento metri, siamo sulla spiaggia. A destra e a sinistra una distesa di sabbia, di fronte un porticciolo che si incunea nell’acqua per cento metri per poi biforcarsi alla fine dove forma una sottile T. Sopra questa T di cemento si accalcano pescatori esperti o improvvisati di ogni età e origine. Tra i pescatori, quattro enormi pellicani attendono placidi scarti di esche o pesci troppo piccoli. Tutti sembrano pescare.
Il secondo giorno che torniamo al mare in questa riserva è dopo esserci trasferiti a casa. Stavolta andiamo per testare la spiaggia, facciamo un giro tra i pescatori, a cui stavolta non sta andando troppo bene, torniamo in spiaggia per il primo bagno.
Il terzo giorno che vi torniamo siamo provvisti di canne da pesca comprate a 30 dollari l’una da due ragazzi in partenza per nuove mete. Proviamo anche noi, ma non abbiamo esche. Il rimasuglio di osso di pollo di una fugace cena drive-through da kfc potrebbe funzionare. Proviamo ma ovviamente non c’è risposta dai pesci che, se non fossero muti, ci prenderebbero a male parole.
Il quarto giorno ho preso una pastura e degli ami colorati che usano anche gli altri pescatori, la pastura sembra attirare i pesci, gli ami che non hanno bisogno di esca non sembrano allettarli troppo. Solo uno, forse per sbaglio, abbocca. A fine pescata il dubbio se tenerlo o ributtarlo, viene sciolto dal pesce che nel frattempo è morto.
Il quinto giorno arriviamo a quella che nella mia testa è l’alba, ma non per il sole che è già sorto da un paio d’ore. Al porticciolo ci sono solo quattro anziani pescatori che addrizzando le orecchie sembrano essere italiani anche se l’italiano che usano è un dialetto ormai in disuso nella terra natale. Provo l’approccio ma non mi cagano, credo sia per il mio modo di fare somaro a pesca. Non mi preoccupo, il mio modo di pescare è un tentativo di stringere un legame con la natura, di apprezzare il silenzio, di osservare l’evolversi del giorno, di sciogliere i pensieri dai nodi e farli scorrere lontano e se pesco ho da mangiare, altrimenti faccio spesa. Sto beatamente facendo somaro con lo sguardo rivolto all’orizzonte quando vedo spuntare una pinna. Non è come chi per primo vede l’America, perché lui si aspetta di vederla da un momento all’atro. Io semplicemente guardo in là e una pinna in Australia può significare molte cose in quest’anno in cui gli squali presidiano le coste e io ho paura di fare il bagno con la maschera perché non mi piace pensare che l’ultima immagine nitida che posso ricordare è una bocca spalancata con tre file di denti aguzzi. Un’altra pinna vicina, il dorso a cui è attaccata forma una mezzaluna perfetta, una mezza sfera blu lucente oltre il pelo dell’acqua. È un attimo. Ma è innegabile che siano delfini. Come si racconta che facesse chi per primo vedeva l’America grido “DELFINI!”. Non uno dei pescatori italiani presta attenzione alle mie parole, ma quando mi volto dietro, la ragazza alla mie spalle sta già piangendo di commozione, mentre loro – i delfini – si stanno progressivamente avvicinando al porticciolo. Si avvicinano fino a una decina di metri, finchè, intelligenti come sono, non realizzano che meno della metà delle persone sono state toccate dalla loro presenza e così interrompono la manovra di avvicinamento e virano per altri lidi per cercare altre e migliori anime sensibili.
Rimane la consapevolezza che fare somaro non è mai stato così piacevole.
Dal sesto giorno il caldo si fa difficile da sopportare e  inizio a dedicarmi esclusivamente e con una certa costanza a fare il bagno presto di mattina che a dicembre una fortuna del genere non so se e quando mi ricapita.



mercoledì 2 gennaio 2013

Cruciverba, sigarette, alcol e cibo scaduto


Ho sognato una rimpatriata tra amici e uno di loro che mi dice che il prossimo lunedì si sposa e io decido di aspettare a tornare in australia perché il suo matrimonio non posso perdermelo. Poi ho fatto un altro sogno nella stessa notte.
Ho sognato uno zio anziano, che sapevo essere malato, con indosso il cappotto e il cappello di un nonno che mi aveva lasciato tempo fa. Lo vedevo di spalle e lo seguivo senza raggiungerlo e mentre lo seguivo scrivevo sul palmo della mano parole che erano i miei pensieri o forse i suoi e il palmo della mano era enorme e le parole tante, ma ricordo soltanto “era lui”.
Stamane al risveglio ho scoperto che uno dei due sogni si era avverato, purtroppo. Non si può essere in due posti nello stesso momento, ma c’è un filo che unisce negli affetti, nell’amicizia e nel dolore che non conosce distanze.

martedì 1 gennaio 2013

Vigilia, natale e santo boxing day



24. La luce del sole estivo di dicembre si riflette sulla goccia che scivola lenta sul dorso della mano che impugna una lattina di birra ghiacciata – una XXXX Gold, lattina da 375 ml, 30 lattine per 36 dollari australiani – guardo la goccia e realizzo che domani sarà natale. Sento che una goccia di sudore sta per uscire dalla mia fronte e già una mosca atterra su quel punto ad aspettarla. Quando stai per partire per l’Australia tutti quelli che non ci sono mai stati ti parlano solo della moltitudine di animali pericolosi che l’infestano, quelli che ci sono già stati ti parlano di tutt’altro, di quanto sia splendida. Nessuno ti parla delle mosche. Le mosche non sono pericolose, ma sono una specie di condanna, piccole e fastidiosamente arroganti riescono a captare ogni goccia di sudore ancora prima che sia uscita, si posano negli occhi, cercano di entrare nella bocca, nel naso e, soprattutto, percepiscono le preoccupazioni su cui planano anche se sei immobile per non sudare e forse ti spieghi com’è che gli australiani non ne abbiano (preoccupazioni, non naso o bocca). Sono seduto in giardino, torso nudo, pantaloncini e infradito. È caldo ma domani lo sarà di più: sono previsti 40° per natale, il termine più appropriato per la situazione è insolito.
25. Sto guidando verso la spiaggia. Sono le 8 di mattina del giorno di natale, la radio accesa su una stazione a caso, tanto per imparare la lingua, trasmette una serie infinita di canzonette natalizie. Nonostante più che natale sembri ferragosto, sale un pizzico di malinconia. Per essere l’australia la spiaggia è decisamente affollata: su un chilometro di spiaggia riesco a contare una ventina di persone, forse trenta. Sono le 8.30, il sole è già piuttosto alto, sembra abbia fretta di raggiungere lo zenith e osservare da lassù le chieriche incipienti fino alle 3 p.m., la pelle chiara chiede protezione, i bambini intorno fanno il bagno con la maglietta, quelli musulmani con una specie di muta che lascia scoperti solo volto e piedi, ricordo la mia infanzia, gli eritemi, le urla materne, i bagni con la maglietta. È un crescendo di malinconia, devo buttarmi. L’acqua è fredda solo al primo impatto, la malinconia che si stava incrostando alla pelle con relativa immancabile visita di qualche mosca, si scioglie con l’acqua salata. Niente albero, niente presepe, niente focolare, niente pranzone, niente parenti, niente stella cometa, solo tre stelle marine trovate nell’acqua bassa, decisamente più interessanti di quelle appese al presepe. Rimane giusto un velo di malinconia ma nemmeno troppa. Buon natale.
26. Boxing day è qualcosa di puramente anglosassone. Non so quante volte abbia cercato di capire il motivo della celebrazione del giorno di santo stefano, il giorno dopo natale, ma so che altrettante volte l’ho dimenticato, rimanendo con la sensazione che si tratti di un giorno di smaltimento delle grandi abbuffate. Ora – a dispetto del desiderio dei vari stefano – il giorno dopo natale mi trovo a dover decifrare il significato di boxing day. Quel che capisco è che ha a che fare con i saldi, o viceversa. Una stramba coppia di australiani (lui noleggia tende per il mercato e lei ha una bancarella che vende girandole o mutande o dvd dei sopranos o borse di paglia o uova o occhiali o mango, o maglie pacchiane di Eminem, ogni giorno cambia gli articoli in base a qualche incomprensibile legge del marketing) spesso sbronzi dalla mattina e a cui piace sfidarsi a gara di rutti, ruvidi ma in fondo di cuore, mi danno spiegazioni più o meno credibili. Quelle su cui insistono maggiormente sono che la gente è disposta a prendersi a pugni pur di accaparrarsi i migliori pezzi in sconto con i saldi (cfr. boxare, verbo il verbo della boxe), oppure è il giorno in cui si possono tirare scatole addosso alla gente per il solo piacere di farlo (cfr. box, inteso come contenitore). 

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