venerdì 28 dicembre 2012

Bugs Bunny ha avuto un brutto incidente: è paralizzato ma domenica ti attende comunque



Un rituale settimanale, scoperto per caso e per curiosità può trasformarsi, già dopo la prima volta, in un’esperienza mistica imprescindibile che ha i tratti della dipendenza. Un appuntamento settimanale fisso dal quale non riesci a esimerti a meno che non  ci sia un impedimento eccezionale. È come andare a messa, per chi ci va. Come per la messa, è un appuntamento che ha luogo nel fine settimana e, come per la messa, puoi scegliere l’orario che meglio rispecchia le tue esigenze. Diversamente da chi va a messa, a meno che non sia un amante delle chiese e ogni volta ne cambi una, il posto non è mai lo stesso. Come se dovessi seguire le partita della squadra del cuore, sempre in trasferta ogni settimana in uno stadio diverso, non si ripete mai una stessa location per lo svolgimento, anche se vi sono eccezionali eccezioni che sanno di bluff. Quei cartelli buttati in mezzo alla strada, due parole scritte con un pennarello su uno scatolone e una freccia. Li noti distrattamente mentre sei seduto su un qualche autobus con cui torni a casa, o vai in qualche posto per trascorrere il weekend. Ti accorgi che è il fine settimana dalle persone assiepate nei vari parchi per fare barbeque, seguire i propri figli mentre giocano a baseball o cricket, ti accorgi del cartello perché il giorno prima non c’era, ma è troppo tardi e il cartello è già passato. Vorresti avere la macchina per fare inversione e leggere cosa c’è scritto. Più che quelle due parole, o lo scatolone buttato là quasi per sbaglio, è la freccia che stimola l’immaginazione. La freccia indica una strada interna, di quelle che gli autobus ignorano, sei destinato a rimanere con questo dubbio a meno che non ti decidi a spingere il pulsante, fermare il bus e farti una passeggiata verso l’ignoto, ma fai una rapida considerazione di costi e benefici e il gioco non vale la candela. Assorto nelle fantasie perdi di vista il panorama domenicale che l’autobus attraversa senza fretta, fuori dal vetro vedi un insieme sfocato di verde parco, blu cielo e grigio asfalto, alternarsi a sprazzi di colore a cui non dai importanza. Poi d’improvviso tutto si ferma, ti scuoti dai pensieri, torni a distinguere le sagome degli alberi, di una villetta, delle nuvole, di tre aborigeni che barcollano a piedi nudi sul marciapiede opposto, due auto che si fermano vicino al tuo finestrino. Tranne gli aborigeni tutto è immobile. Guardi avanti e vedi che non è altro che un ennesimo semaforo che ha interrotto il flusso dei tuoi pensieri e ti ha riportato alla realtà, ma ancora una volta qualcosa pizzica la tua curiosità: alla base del semaforo c’è un altro scatolone, ancora due parole e ancora una freccia. Con l’autobus fermo hai abbastanza tempo per aggirare la miopia, strizzare gli occhi e mettere a fuoco la scritta, i contorni sfocati delle parole si fanno netti e formano la scritta “garage sale”. La freccia indica una strada diversa, ma ora hai un indizio, conosci quelle due parole e, in un futuro imminente, potrai approfondire l’argomento con gli autoctoni. Garage sale non è altro che la vendita di beni da parte di un privato che nei giorni di festa invita gli estranei a rovistare nella propria vita, a spulciare le proprie passioni a cui improvvisamente ha deciso di rinunciare. Liberarsi del superfluo, una forma di riciclo, il superfluo che si scopre indispensabile per altri, per poi tornare ad essere superfluo.  I bambini sono cresciuti: svendiamo tutte le loro cose. Cambio casa, cambio vita: svendo tutto (in questo caso si parla di “massive garage sale”). Riparo bici e nel fine settimana le riparo: questo è il caso dei garage sale bluff: non sono un evento unico e irripetibile, ma sono costantemente aperti nel w-end. Non compri la macchina per seguire le frecce o per infiltrarti nella vita del prossimo, la compri per altre esigenze, ma appena ce l’hai ti trovi a contare le ore che mancano al prossimo fine settimana. E quando arriva sabato inizi a vagare tra le strade secondarie come se ti fossi perso e guidi piano come gli anziani col cappello per non perdere nessun segnale. Quando trovi il primo cartello senti salire una strana morbosa emozione, dal paese da cui provieni i garage sono i luoghi in cui sono depositate le più perverse fantasie, gli hobby temporanei e tutti sono nascosti da un telo come se costituissero il più grande segreto o sotterrati da uno strato di polvere. Qui il garage è aperto, tutto è buttato fuori alla rinfusa, eppure fai fatica ad entrare per la prima volta, in punta di piedi ti avvicini, gridi “hello”, un estraneo ti risponde “hi, going?” senza prestare attenzione alla tua risposta, lui torna ai suoi affari o resta seduto a contemplare un altro dei tanti visitatori, tu guardi un attimo in giro, hai paura di entrare in contatto con la vita degli altri e non tocchi le loro cose, ti limiti ad osservare, ringrazi, saluti, scappi.
La prima volta non è mai facile, in generale.
La volta seguente tutto è già più facile, sapere come funziona ti risparmia l’impaccio iniziale, ostenti sicurezza – cosa che dovrebbe essere del tutto naturale dato che tu sei il potenziale acquirente e lui farà di tutto per metterti a tuo agio, ma, per la storia dell’invadere la privacy altrui, non è così scontato -, tocchi le cose, le prendi in mano, chiedi i prezzi. Non è come andare a fare la spesa con lista già pronta, qui non sai cosa ti aspetta, tutto è potenzialmente utile, ma niente è indispensabile.
In uno di quei garage sale stracolmi di cose da bambini rimaste troppo piccole, trovi un trivial pursuit in inglese che reputi un ottimo acquisto per 5 dollari, un gioco che sarà utile a stringere i rapporti coi coinquilini, a migliorare l’inglese e, al contempo, a rispolverare qualche nozione di cultura generale. Solo una volta a casa scoprirai che almeno la metà delle domande trattano storia e tradizioni australiane e nessuno conosce niente a riguardo. Nello stesso garage sale trovi uno scatolone di giochi stupidi, pupazzetti, palline e varie ed eventuali, tutti “free”. Ti ci fiondi e mentre raccatti tutto il possibile pensando a come riutilizzarlo, ti accorgi che hai perso la concezione di utile e superfluo e che l’ingordigia ti sta accecando. Decidi così di lasciare un po’ di cazzate anche al prossimo tuo.
In un altro garage sale, l’anziano signore sembra avesse tentato di riprodurre una ferramenta nel proprio garage e ora, troppo anziano per distinguere gli attrezzi, debba rassegnarsi a disfarsene, prendo una pinza. Anche la casa di fianco fa un garage sale, ma non c’è niente di utile, sto per andarmene quando mi invitano ad entrare in casa: si tratta di un massive garage sale, l’occasione è un trasloco imminente in un posto molto lontano: ogni cosa ha un prezzo: coltelli, lampade, divani, letti, sedie, armadi, ciò che si trova dentro gli armadi, cose. Di utile, niente.
Sabato, domenica, domenica , sabato. Un paio, massimo tre garage sale a settimana, poi il resto del weekend a pensare a come sfruttare le cose.
Una logora cintura di pelle a cinquanta centesimi.
Altre persone, altri incontri, altri cartelli, altre frecce da seguire in una caccia al tesoro a puntate. Segui la freccia, destra, sinistra, ecco l’ennesimo. Ad attenderci non c’è una persona fisica, sul prato all’ingresso di casa c’è Bugs Bunny. Sotto il sole cocente ci guarda dalla sedia a rotelle che usa per spostarsi dopo qualche brutto incidente. Non parla. Ci guarda e ci invita ad entrare. Ritorna la paura iniziale: chi può mettere un pupazzo gigante di Bugs Bunny sopra una sedia a rotelle – pezzi in vendita separatamente o insieme – fuori dalla porta di casa, all’ingresso del garage? La situazione intriga. La donna che ci aspetta dentro è un’anziana grassona senza denti seduta su una poltrona ci parla dell’elicottero che sorvola la città, vende poche cose, videocassette, giacche da uomo, un’infinità di canne da pesca. Le giacche, le canne, la sedia a rotelle, deve aver perso da poco il marito. La stanchezza, la rassegnazione con la quale ci accoglie, ci stemperano la curiosità, le canne già le abbiamo, bugs bunny su una sedia a rotelle è un’immagine sufficiente per questo fine settimana, per oggi basta.
“Le cose che possiedi alla fine ti possiedono” diceva palahniuk e aveva ragione, eppure forse non aveva considerato i garage sale come liberazione totale dalla schiavitù.

mercoledì 26 dicembre 2012

È un forte cavallo che vola. Il suo nome è Pegasus



Il loro inglese è buono, probabilmente hanno un vocabolario più esteso del nostro, ma la paura di sbagliare li blocca e pronunciare alcune lettere gli crea enormi problemi: il pensiero comune vuole che sia la R a creargli problemi, ma vi sono altrettante difficoltà con la pronuncia della F che spesso suona come una B. Hanno nomi inglesi e tratti orientali: le due cose non vanno propriamente d’accordo. Scopro così che oltre ad aver abbandonato la loro terra, gli affetti, i parenti, i cibi speziati, hanno lasciato alle spalle anche quei loro nomi densi di significati mistici e affascinanti per adattarsi alle esigenze del posto. È così che per molti è stata l’insegnante del corso d’inglese a ribattezzarli, a scegliere un nome facile e privo di connotazioni così poetiche come sono i nomi occidentali. È così che il dolce e paffuto taiwanese il cui nome originale significa forte cavallo che vola, è stato ribattezzato Jhonny, è così che si perde la poesia, e noi quando scopriamo un tale affronto alla poetica orientale lo ribattezziamo Pegasus in un estremo tentativo di mantenere un significato che rende la sua paffuta dolcezza un po’ meno impacciata. Molti, non tutti, sono stati ribattezzati dagli insegnanti di inglese, Chris no. Chris lavora dodici ore al giorno, sveglia alle 3 di mattina a letto alle 6 di pomeriggio, è difficile incontrarlo, perché di lavoro sposta pietre a mano e quando torna sporco e con la maglia strappata è troppo stanco per parlare, mangia e va in coma come dice lui. Chris, che ama l’Italia e Michelangelo e finchè era a Taiwan lavorava in una galleria d’arte, ha scelto il proprio nome un attimo prima di partire. Nell’inventario delle cose da fare era rimasto di cambiare il nome e, probabilmente, ricordarsi di prendere lo spazzolino dopo averlo utilizzato un’ultima volta. Preso lo spazzolino, si è guardato intorno ed ha letto vari annunci pubblicitari fino a scegliere quello stampato sull’etichetta della bottiglia di latte che teneva in mano: “Chris Milk”, ovviamente ha tenuto Chris e buttato il Milk. Per pudore e per evitare di incappare in facili ironie, con Rex ho voluto evitare di entrare nell’argomento.

giovedì 20 dicembre 2012

Trenta chili e 21 grammi, il peso della Singer del ‘52



Riparare una macchina da cucire Singer del 1952 non è esattamente quello che mi sarei aspettato di dover fare una volta sbarcato in Australia. Ma qui gli schemi mentali acquisiti in anni di studi e lavoro non contano e tutto diventa possibile. È possibile che la frenesia dei ritmi di vita logori e logoranti acquisiti scivoli in secondo piano. Succede così di prendere tra le mani un oggetto mai toccato prima come può essere una macchina da cucire che ha appena compiuto sessant’anni di vita. Ma si sa, come per i cani a cui ci affezioniamo sempre troppo da non essere mai pronti alla loro scomparsa, la tecnologia corre così veloce che anche per una macchina da cucire un anno umano ne conta come sette, e con i continui progressi sempre qualcosa di più, tanto da non affezionarsi più alle cose. Così la macchina, che gentilmente il padrone di casa mi presta per donarla alla ragazza che sorride al mondo, è bella che morta (la macchina). Tra le mani ho uno splendido oggetto inanimato dal peso assurdo, con un corpo fatto interamente di legno e ferro, il peso dev’essere intorno ai trenta chili meno i 21 grammi del peso di un’anima che dev’essersi spenta serenamente, per il lavoro svolto e la cura delle mani di quelle donne che cuciono, diverso tempo fa. Ma per quanto bella, così non mi serve.
Con la curiosità dei bambini che smontano le cose e la tenacia di un dr. Frankenstein smonto i pezzi principali, cerco di intuire le dinamiche, rimetto viti dove mancano. Provo ad accendere ma il motore gira a vuoto senza che la macchina risponda. Stacco la spina e la muovo a mano e capisco le dinamiche di un ingranaggio semplice ed affascinante, come sono le auto d’epoca che ho imparato a conoscere, senza accorgermene, seguendo le riparazioni di un grande amico, nonchè del più grande meccanico di auto antiche che abbia mai conosciuto (non che ne abbia conosciuti altri oltre lui, ma sento che le sue capacità sono rare da ritrovare). Seguire le sue riparazioni era un aspetto secondario, fondamentalmente quello che facevo era dargli una mano, fargli compagnia, stappare e bere birre, sparare cazzate, aspettare che un’altra macchina fosse pronta a camminare su strada, fare un giro, salutare i passanti curiosi, sentire freddo fin nelle ossa tanto da metter giornali sotto la felpa quando i collaudi si facevano nelle fredde notti invernali. Quelle cose che si fanno tra amici.
Quindi mi trovo con questa macchina da cucire tra le mani, il pensiero che va alle auto antiche e quella consapevolezza - acquisita osservando - che le cose di una volta sono oggetti finiti, non contemplano l’elettronica che rende quelli attuali quasi infiniti e in questa loro finitezza esatta la ragione di un mancato funzionamento deve trovarsi per forza di cose al loro interno, esattamente costruito. 
Gli ingranaggi sono al loro posto, muovendo a mano la rotella che normalmente dovrebbe girare grazie al motore, il movimento stenta ma avviene. Serve il sangue: manca l’olio. Anni dimenticata in uno scantinato hanno indurito le sue giunture fino al punto che il motore che fa da cuore pompa senza avere reazioni. A questo punto è quindi sufficiente oliare gli ingranaggi, attaccare la spina e il sangue torna a circolare e la macchina risorge e prende vita. Farla poi correre non sarà immediato: il filo si spezza. Forse è messo male e dev’essere messo al contrario, come tutto qua, o forse il filo è solo troppo vecchio e va cambiato. La seconda. Ora cuce e cuce bene, se non fosse per il fatto che ogni dieci secondi salta la corrente in tutta la casa e la causa è lei e i suoi ingranaggi ossidati e i suoi fili malandati. Ripenso a quante volte ho sentito dire “sarà un contatto” per spiegare luce che va e che viene, ma alla fine non lo era mai; ma se si usa questa espressione sarà successo e probabilmente succedeva in passato. Ed ecco la parte più difficile: smontare il cavo della corrente, capire, accorciare e ripristinare, ma anche queste cose erano all’ordine del giorno con le auto d’epoca e – con mia sorpresa – riesco in breve a risolvere quello che sembra essere, finora, l’ultimo problema.
Ora, quando la sollevo, sento chiaramente che il peso è di 30 chili e 21 grammi. 

martedì 18 dicembre 2012

Il pianeta rosso e la costellazione indiana



C’è una ragazza in strada a Freo che è appena arrivata, ma sembra sia lì da sempre. Intorno al pianeta rosso del suo cuscino, che usa per attutire la durezza del mondo, gravita una costellazione di personaggi, artisti di strada, venditori, gente che si apre al suo sorriso, ricambiandolo. Lei sembra essere lì da sempre, ma se ti avvicini, dal suo inglese, capisci che è appena caduta sotto l’ombra di quella pianta su cui si arrampicano bimbi scimmia, o sotto l’ombra delle verande dei ristoranti cinesi dove i genitori dei bimbi scimmia pranzano o cenano; lei è sempre lì, è l’ombra che si sposta, cercandola. Proteggendola.
Il cielo blu che confina col suo pianeta rosso è un tappeto cosparso di oggetti che ricordano gli ornamenti delle donne indiane prima del matrimonio. Ma la ragazza può anche, e soprattutto, trasformare piume in orecchini, treni in collane, orche in bracciali, conchiglie in ciò che la tua fantasia segreta e bambina sogna ma non oserebbe raccontarti.
Se il tempo sta per cambiare, lei lo percepisce in anticipo e le si inceppa la F di fifteen, ma, come per il motore delle vecchie auto, basta dare due o tre colpetti e tutto riparte e come le per le vecchie auto. “Il bello contro il pratico è un atavico duello, io mi sono già schierato con lei che è così bella” cantava qualcuno.
Come se stesse lì da sempre, tutto sembra ruotarle intorno: nuovi venditori chiedono il suo consenso per sederle accanto, aborigeni e vecchi saggi indiani si chinano sino a sfiorare il suo pianeta per baciarla in segno di rispettoso saluto, un eclettico batterista in pensione per un’imprecisata turba mentale, le fa da mentore: consigliere musicale su ciò che avviene in città e sulle sue future session, da consigliere alimentare sul momento migliore per comprare al mercato: la domenica dalle 4 di pomeriggio i venditori di frutta e verdura cinesi svendono tutti i loro prodotti a un dollaro ed è un delirio di mercanti che urlano “One dolla! One dolla!”, o chi ha più fretta “dolla! dolla! dolla!”. Pedro, del market del centro, l’ha vista così wonderful e beautiful e le ha chiesto di vendere anche dei suoi oggetti dai colori e tessuti dalle fattezze nepalesi, che lui è troppo stanco e si limita a vecchie insegne americane anni ’50.
L’universo si riempie di cose, colori, forme, tradizioni, e lei è lì che veglia silenziosa come farebbe un dio creatore. La ragazza è seduta e guarda sia i lenti turisti che i frettolosi lavoratori dal basso all’alto, ma, come se si rimpiccolissero, tutti quelli che passano scendono al suo livello quando costeggiano il suo pianeta rosso e si scambiano un cenno di saluto inevitabile. Naturalmente non sono solo saluti: sono in molti che si fermano a contemplare le trame indiane, o i suoi oggetti creati a mano o quelli cuciti con meticolosa precisione passando e ripassando le proprie sottili dita sotto la mitragliatrice della sua Singer del ’52, gentilmente offerta da un italiano e riparata da un altro, entrambi ammaliati dal genuino calore del suo sorriso (uno di più).

venerdì 14 dicembre 2012

This is Freo. E morì con un felafel in mano



Fremantle è a Perth ma non è Perth. Fremantle è una vera e propria città che vive di vita propria, che ha tutto e se sei a Fremantle assai raramente avrai bisogno di andare a Perth per qualsiasi cosa. La distanza che divide la grande città dal piccolo sobborgo è nell’ordine dei 15-20 chilometri. Fremantle ha origini italiane. Alcuni raccontano che siano stati i pescatori italiani arrivati qua a metà ‘900 o qualcosa prima a fondare questa città, fonti più ufficiali fanno risalire l’origine del nome all’omonimo scopritore inglese. Al di là delle origini, e al di là che sia ritenuto un bene o un male, a Fremantle è innegabile che l’aria che si respira abbia molto di italiano. L’italiano dei pescatori che arrivarono negli anni ’50 mischiato con l’italiano degli attuali immigrati in cerca di qualsiasi lavoro per fuggire dall’italia malata, il tutto condito con spruzzate di cultura hippie, manifeste soprattutto in diete che alternano il vegetariano al vegano, in calze da uomo a righe colorate che si intravedono quando impeccabili signori si siedono ai vari bar di cappuccino strip, in capelli sfibrati da rasta, in gonne ancora lunghe e psichedelicamente sbiadite nell’apparenza ma non nei contenuto. Il legame di Fremantle con l’italia di un tempo è forte soprattutto con determinate città: forti sono le comunità di siciliani e abruzzesi provenienti in particolar modo da Vasto e Capo d’Orlando, città con cui è gemellata.
Una telefonata (seguita da un’altra in madrelingua) cambia tutto. La partenza e il viaggio rimandati, la rotta impostata da un navigatore, già eccitato per i nuovi orizzonti, reimpostata su un tragitto più breve, l’adrenalina non scende per una nuova esperienza alle porte, l’adrenalina sale per essere rimasti senza casa. E allora, di corsa.
Nuova destinazione. Colloquio. Va bene. Proviamo. A domani.
Casa. Gumtree. Annunci criterio “real estate”, criterio Fremantle + 20 km. Trovate. Rispondono in due. La prima non è troppo vicina, ma è carina, ma loro proprio non si capiscono, il discorso è strano, le camere libere sono tre, due singole e una doppia, ma in doppia c’è la tipa che ci mostra la casa, ma forse spostando il suo letto nella singola e unendo i materassi e affittando le due doppie e utilizzando questo e muovendo quello e e basta! Troppi incastri e poi ma quanto costa? Ok troppo. See ya. La casa seguente è vicinissima al lavoro. La tipa che deve mostrarcela ci accoglie da vecchi amici, ci conosciamo? Ovviamente non rammento. Ma lei mi rinfresca la mente, al tempo della scelta della prima casa ci aveva già mostrato un altro appartamento. A questa strana taiwanese chiedo se sia un’agente immobiliare, ma la volta precedente stava sostituendo un’amica, questa invece è la casa dove vive. La casa è grande, su due piani, le chiedo in quanti ci vivano, mi risponde fifteen, forse ho capito male, forse diceva five, ma no è troppo diverso, forse diceva fifty? No cinquanta è impossibile. Dev’essere veramente 15 il numero che voleva intendere. La nostra stanza è una sorta di depandance piazzata sul giardino sul retro, la camera è grande, la privacy garantita, come d’altra parte le esperienze di integrazione multiculturale. Improvvisamente ho un flashback e mi tornano alla mente immagini di “E morì con un felafel in mano” un film visto dieci anni prima. Un film che racconta le esperienze in tre diversi appartamenti australiani di uno scrittore che cerca di far pubblicare un racconto su playboy. Tre diversi appartamenti, situazioni al limite del reale, ma tutte decisamente possibili, qui.
Ok, la prendiamo.
Cinque sono taiwanesi, uno coreano, due francesi, un tedesco, uno cileno, noi due italiani e non è una barzelletta. Una stanza è ancora vuota ma, subito dopo di noi, arriveranno due spagnoli e inizierà la festa. Il padrone di casa che compare solo per riparazioni o disinfestazioni tra un inquilino che va e uno che viene, è italiano.
Cara Susan, sarò diretto, da te si sopravviveva, ma è questo quello di cui avevamo bisogno, qui c’è vita sociale, vita domestica, vita. Qui si parla qui si migliora l’inglese, qui ci si diverte e, volendo, si può anche usufruire della sala. Senza rancore, non hai colpe Susan, solo avevamo bisogno di altro e non lo sapevamo. E tra l’altro, a cinque minuti da qui abbiamo un mare fantastico.

mercoledì 12 dicembre 2012

L’elasticità



C’era una volta Perth. C’era una volta Susan (e suo fratello Arnold). C’era una volta l’autobus. C’erano, poi ho deciso che non ci sarebbero stati più. Lascio casa, lascio la città, faccio il pieno di benzina e imposto il navigatore direzione sud. Direzione farm, direzione lavoro fisico, campi, fragole, ciliegie, direzione mosche, ragni e serpenti, ma anche chilometri di strade dritte, deserto, canguri che di notte attraversano senza preavviso, spiagge incontaminate, alberi giganti, sud che qui significa più freddo o meno caldo a seconda della stagione. Salutare Susan, se non dorme salutare Arnold. Lei è in casa, lui anche ma dorme ancora, salutalo te per noi. D’improvviso lei si scioglie ed esce dal suo guscio di timidezza, ma è troppo tardi per instaurare un rapporto che renda il saluto abbastanza affettuoso. E il ricordo di una convivenza verso la quale siamo riusciti a trovare i lati positivi nonostante ce ne fossero pochi svanisce varcando la porta di casa per l’ultima volta.
Tutto cambia. Ma per cambiare ci vuole volontà, qui neanche troppa, ma un minimo ci vuole.
L’emozione della novità pervade lo spirito e rinvigorisce il corpo, una nuova destinazione da impostare, un lungo viaggio, nuovi incontri, nuove situazioni, nuovi orizzonti.
Ma.
Tutto cambia.
Quale sia la frequenza dei cambiamenti e se gli alti e bassi siano normali o si catalizzino su di me non mi è dato saperlo, ne è facile quantificarlo per farne una statistica. Fatto sta che le cose cambiano in fretta e l’alternanza di alti e bassi ha cadenza giornaliera.
Sto per accendere la macchina, quando squilla il telefono. E tutto cambia. Quello che ti insegna l’Australia, quello che impari ad essere immigrato è l’elasticità. Serve essere aperti (open-minded) e pronti ad accettare variazioni ai propri piani.
Hello? Al telefono risponde un italiano, che mi parla come se ci conoscessimo già. Pensando di averlo incontrato in giro per la città faccio finta di riconoscerlo, poi capisco che è uno di quelli a cui avevo mandato il resume (CV), ma ne ho mandati talmente tanti che proprio non so chi sia, ma sembra brutto dirglielo. Si sì certo che ho capito chi sei, ma per sicurezza mandami un sms con l’indirizzo che ci vediamo e ne parliamo. E tutto cambia


venerdì 30 novembre 2012

Settimana della Hyundai Lantra Sedan dal tettino smarmellato. Ovvero acquistare un’auto usata




Mezzi pubblici
Andata
Casa-fermata del bus più vicina con un solo autobus: 5 minuti
Fermata del bus-arrivo del bus: fino a 30 minuti
Oppure
Casa-fermata del bus più vicina con molti autobus: 15 minuti
Fermata del bus-arrivo del bus: fino a 5 minuti
Bus-centro di Perth: 20-30 minuti
Hai impiegato un’ora per andare fino al posto dove tutti gli autobus arrivano. Impieghi molto di più se invece che verso il centro città devi andare in un posto meno collegato per un colloquio di lavoro o altro.
Ritorno stesso tragitto ma dopo le 7 p.m. diventa tutto più complicato: gli autobus diminuiscono e i tempi di attesa se ne perdi uno per pochi minuti possono sfiorare l’ora.  Dopo le 10 p.m. lascia perdere, ti tocca prendere un taxi, ma sei un backpacker e il taxi non rientra nelle tue possibilità (a meno che uno sconosciuto miliardario-inglese-ubriaco te lo offra dopo averti ospitato a cena ma questa è un’altra storia), quindi sbrigati a tornare.

Lavoro
Molti annunci recano la scritta must have own transport e avere la tessera del bus non significa avere un proprio autobus, ma solo uno sconto del 15% sugli spostamenti. Quei lavori sottintendono posti fuori dal centro, scarsamente collegati.

Viaggiare
Il van è il mezzo ideale, ma i costi sono superiori rispetto alle auto. Per comprare un furgone usato che non abbia fatto il giro dell’australia tre o quattro volte e abbia chilometraggi inimmaginabili in italia e che potrebbe lasciarti appiedato da un momento all’altro, dovresti mettere in conto qualcosa come 5 o 6 mila dollari. Costo che comunque attutisci risparmiando sul dormire. Ma per il furgone è ancora presto

Comprare un’auto usata
Comprare un’auto usata è la soluzione più abbordabile in termini di rapporto qualità/prezzo/tempo. Le lunghe attese per gli spostamenti, la pianta del centro di Perth imparata a memoria, rincorrere gli autobus, sbagliare autobus, l’aria condizionata gelida dei mezzi pubblici, gli zaini troppo carichi in spalla, il sole che ti brucia in questo cielo troppo limpido, la pioggia improvvisa fitta e di breve durata che sembra non sconvolgere né gli autoctoni né i britannici, ma te sì e corri a ripararti con il k-way che ti eri portato come scrupolo, ma che si rivela indispensabile nella primavera – mezza stagione vera. Tutto questo diventa un vago ricordo quando prendi la drastica decisione di comprare un’auto. Una berlina, tanti chilometri, poca vernice, motore buono, la rego ancora in regola, questo cerchi su gumtree. Scorrendo annunci scopri presto che c’è una soglia minima che si aggira sotto i 1800 dollari sotto tale cifra l’auto è buona per prendere i pezzi o, se hai tempo e capacità, per rimetterla a nuovo. Sopra i 1800 dollari si inizia a ragionare. Ti fai un budget, mandi messaggi, prendi appuntamenti, cerchi di far quadrare un giro ideale da fare con gli autobus che presto abbandonerai. Vai, parli con i proprietari, chiedi perché e per come vendono, guardi il motore, cerchi tra i cassetti della memoria tutte le nozioni che hai in materia (i cassetti sono praticamente vuoti e in disordine e il motore è anche al contrario), controlli l’olio, ti innamori di una per un feeling che nasce spontaneo al di là delle tue scarse competenze in materia, ci fai un giro con il proprietario che si diverte come un matto ma non può dartelo a vedere.
In Australia si guida a destra, cioè la macchina sta sul lato sinistro della carreggiata e il volante a destra, insomma si guida dall’altra parte, si guida come in Inghilterra, ma anche Giappone, Malta, credo India ecc... Ma a questo ti eri già abituato in un mese di attraversamenti pedonali sbagliati.
Ti sembra di essere tornato ai tempi delle prime guide alla scuola guida.
Sali in macchina, entri a sinistra, hai già sbagliato, fai il giro e entri a destra, fai retromarcia e per girarti a guardare dietro ti giri verso destra e sbatti la testa sul finestrino, fai il vago e rimani girato da quella parte, col braccio destro con cui eri solito cingere il sedile accanto in Italia ti attacchi alla maniglia sopra il finestrino e, come una scimmia schiacciata contro il vetro dello zoo, riesci ad uscire dal parcheggio. Metti la prima e vai, stai troppo vicino al marciapiede di sinistra, ma riesci ad andare fino alla fine della strada, prendi sicurezza e allo stop inchiodi per testare i freni, ormai sei sicuro di te, “gira a destra” ti fa il proprietario come ti diceva l’esaminatore di scuola guida. Girare a destra? Facile! Metto anche la freccia, con la mano sinistra, metti la freccia e partono i tergicristalli, tutto è al contrario! torni ad agitarti, sei in prima, sei agitato, metti la seconda ma usi la destra e dai un pugno allo sportello, il proprietario non riesce a trattenere un sorriso beffardo, ma non è un esame di scuola e scoppi a ridere e lui con te. Riparti. L’auto va bene, la guida meno ma serve abitudine. Quanto costa? 2000? La rego (è una sorta di bollo che funge anche da assicurazione per le persone ed è obbligatoria, non come l’assicurazione)? Valida per ancora un mese. Ok si può fare. Ora non ho con me i soldi. Ci vediamo giovedì con il denaro in contanti. Il proprietario, un 21enne che deve vendere l’auto perché in partenza per gli USA, sembra affidabile. A giovedì.
Mancano due giorni all'acquisto.
Quando la compro come faccio? Da che parte vado? Serve un navigatore. Torno su gumtree. Ne trovo uno a 50 dollari ma è venduto. Proviamo a comprarlo nuovo che la tecnologia costa poco grazie alla vicinanza di Cina e affini. Il più economico sta a 65 dollari e parla anche in italiano. Preso.
Arriva il giorno, vado dal ragazzino, compiliamo un foglio e il passaggio di proprietà è stato fatto, devo solo consegnarne una copia alla motorizzazione, pagare 70 dollari e l’auto è mia a tutti gli effetti. Prima di andarmene chiedo al tipo se aveva solo la rego o aveva anche un’altra assicurazione, quella facoltativa che però ti copre per i danni verso le cose (auto, case ecc…), lui ce l’aveva e dice che aspetta un giorno prima di cancellarla, dandomi la possibilità di rientrare a casa, grazie caro.
Le macchine al contrario, le frecce al contrario, il cambio a sinistra, le rotonde con le precedenze invertite, l’assicurazione verso le cose è facoltativa, ma credo proprio che mi tocca farla.
Accendo, frizione, marcia, navigatore portami al mare, portami al Whiteman Park quello in cui accarezzi koala e wombat e sei immerso tra i canguri, portami a vedere i deserti, dai navigatore guidami te, bravo ricordami i limiti di velocità. Ehi navigator si sente proprio che sei italiano: ma come cazzo pronunci i nomi delle strade?
Gli altri guidatori hanno i finestrini serrati e, immagino, l’aria condizionata a palla, io con la manovella abbasso i finestrini, niente aria condizionata, solo vento australiano, braccio fuori all’italiana, finalmente un po’ di tamarraggine latina. Poi mi torna in mente che qualcuno in Italia mi aveva detto che dovrebbe essere vietato mettere il braccio fuori, mi suonava strano e non ho mai verificato, ma per precauzione lo rimetto dentro. Mi accontento del vento dentro e della punta del gomito fuori
P.S. le suddette regole per l’acquisto valgono in Western Australia, in altri stati australiani, sembra sia leggermente più complesso, perché c’è di mezzo una costosa revisione meccanica di cui però non so molto.



domenica 25 novembre 2012

Il dejà vù, l’errore del matrix





Il déjà vu è un errore di Matrix. Succede quando loro cambiano qualcosa”
Lasciare Perth significa lasciare anche gli errori di chi ha organizzato questa civile e funzionale città. Come in Matrix ti accorgi di essere in un mondo troppo perfetto rispetto a quello che hai lasciato per essere vero. Come in Matrix, ti accorgi che qualcosa non quadra grazie agli errori, ai dejà vù.
Capita di trovarti in differenti parchi della città, più o meno vicini al centro, più o meno isolati come quello di Osborne Park dove non c’è anima viva e, dopo un po’ che sei entrato ti imbatti in un cartello che ti spiega che nella zona non è difficile imbattersi in qualche serpente e quindi occhio a dove cammini, capita in questi parchi che dopo un po’ che sei dentro il silenzio viene rotto dalla nenia di un carillon che la prima volta ti strappa un sorriso, la seconda volta che la senti in un altro parco ti inquieta e cerchi di seguire il suono per trovare l’origine ma sparisce quando ti sembra di essere in procinto di, la terza volta, la terza volta decidi di fare una pausa con i parchi di perth.
Più comune a tutti coloro che hanno frequentato le zone del centro di Perth, nello specifico Northbridge, è un altro tipo di errore: la ragazza felice. Incontrare persone felici, non serene, ma felici e raggianti, per quanto raro è un’esperienza che di tanto in tanto capita a tutti, capita persino, ancora più di rado, di essere noi stessi la persona felice. Ma vedere ogni giorno la stessa ragazza che procede saltellando quasi non toccasse terra, avanzare al ritmo di una musica che ha nella testa, e allo stesso ritmo oscillare la testa e quel suo gonnellino che è sempre lo stesso modello anche se può cambiare di colore, e con il sorriso di chi non ha turbamenti ma è in pace con il mondo, avanzare verso di te e tu sei come ipnotizzato da tanta gioia di vivere e le sorridi e la segui con lo sguardo mentre ti passa di fianco e non è finita, come sei lei sentisse di averti ipnotizzato, si volta sorride ancora di più, sembra fermarsi in aria per un secondo, ti saluta la mano con rapido e impercettibile cenno, riscende a terra e come è arrivata, riparte. E così accade ogni giorno che ti trovi nel centro di Perth, in particolare nella zona di Northbridge. Ebbene tutta questa felicità, tutti i giorni, tutta da parte di una sola persona, come se dovesse riequilibrare le sofferenze di tante tristi esistenze, ebbene tutta questa felicità non può che essere un errore dei programmatori di Perth.
Questo post non so se era PERTHinente o addirittura  imPERTHinente, comunque con tutti questi insetti mai lasciare le porte aPERTH, PERTHanto PERTHonatemi

venerdì 23 novembre 2012

Settimana della macchina: this was Perth





This is Perth, this was Perth
Un mese senza lavoro, un mese di ricerche, un mese di curriculum consegnati, spediti, raccontati, un mese di adattamento, un mese per capire. Capire che il periodo è di stallo, gli annunci esposti su bar, ristoranti, negozi di abbigliamento sono orientati al natale e all’estate che qui coincidono, capire che gumtree è valido per acquistare case, cose, macchine, ma, per quanta sia l’offerta nel ramo jobs sono in pochissimi poi a risponderti, capire che la realtà di Perth è dispersiva se non sei abituato a una grande città, capire che abbiamo bisogno di una macchina. Una macchina per spostarci qui, una macchina per viaggiare, una macchina per essere autonomi, una macchina per scoprire l’australia vera. L’australia che tutti immaginano non è nelle grandi città, perlomeno non è Perth. Perth è bellissima, è civile, pulita, tranquilla, avanzata, occidentale, troppo occidentale, Perth potrebbe essere San Francisco, o New York, o un’altra città americana, Perth non ha deserti, non ha solitudini infinite, non ha animali troppo strani o pericolosi (e questo è un bene). Ciao Susan, ciao Perth, ci rivedremo più avanti, quando saremo più grandi e più pronti, per ora basta, grazie di tutto.


martedì 20 novembre 2012

Stay hungry (ma non troppo) stay foolish. Senso degli affari e fregature.



Di fondo gli australiani sono brava gente, ma ciò non toglie che anche qui ci si possa imbattere in spiacevoli episodi. I backpackers in arrivo sono un numero in costante crescita e tutti sono alla disperata ricerca di un lavoro. La crescente angoscia nel riscontrare tanta concorrenza, nel vedere che i backpackers madrelingua (soprattutto irlandesi) abbiano una corsia preferenziale, può far sì che si corra il rischio di imbattersi in qualche truffa. Succede di trovare inserzioni di lavoro su gumtree in cui si legge di farm che pagano qualcosa come 19.80$ l’ora e che ti affittano anche una stanza, ma c’è da sbrigarsi perché i posti in farm sono pochi e le stanze ancora meno quindi, se si vuole stare là a dormire senza sbattersi nel trovare un ostello e i mezzi per andare a lavoro, c’è da anticipare una somma per fermare la stanza. C’è anche la possibilità di usufruire di speciali sconti se invece di pagare una settimana si prenota per due: ex. 120$ una settimana, 200$ due settimane. Poi succede che la cosa puzza un po’, che sei automunito e pensi che per gli spostamenti non sarà un problema e aspetti a pagare e un paio di giorni dopo provi a richiamare il tipo che nel frattempo è sparito e il suo cellulare – a cui prima aveva risposto - dice solo che la casella vocale è piena, la cosa puzza sempre più e non va in porto e ti chiedi chissà quanti siano stati adescati. Per la cronaca, il tipo in quest’occasione diceva di chiamarsi Mark Greenborg o qualcosa di simile e diceva di trovarsi ne pressi di Albany, ma, ovviamente, la prossima volta (se ci sarà) le generalità saranno diverse.
Poi succede anche che delle scarpe, il cui prezzo era stato già dimezzato, vengano scontate ulteriormente e a quel punto, diventano accattivanti. Vai, le provi, la commessa ti aiuta a capire a quale taglia corrisponde la tua italiana, trovi quella giusta, e quando vai a pagare ti dice che costano come prima dell’ultimo sconto, tu non ti scomponi e replichi dicendo tipo “ma non costano così?” e lei, placida, ti fa “ah sei vuoi questo prezzo allora ok” e tu pensi "la prossima volta ti dico che voglio pagarle 1 $”.
Oppure se cambi casa, fatti sempre due conti sul bond (la caparra) che hai anticipato, perché può accadere che il periodo che a te sembra di essere coperto, al padrone di casa risulti invece terminato, quindi se vuoi restare qualche giorno in più paghi un tot al giorno e via, ma, calendario alla mano mostri le ricevute che ti erano state fatte e i conti devono tornare.
Infine, accade di incontrare per strada cartelli tipo questo che non capisci se è una presa in giro o se era rotta la calcolatrice del proprietario…

lunedì 19 novembre 2012

Settimana dell’osso di seppia e del primo tuffo nel mare oceano (per non far torto a Baricco)




La quarta settimana è quella alla fine della quale il conto farà un mese e sarà tempo di tirare le prime somme. La quarta settima inizia sulla spiaggia di Fremantle detto Freo con Matteo che abbiamo conosciuto da Aussiejob, (agenzia di collocamento che cozza con tutti gli altri uffici visti a Perth: è messa su alla carlona, non c’è una logica apparente per i turni con cui vengono chiamati i ragazzi che vi sono assiepati: regna l’anarchia, specie la prima volta che vi si entra, ma che forse ha una sua logica e alla lunga forse darà dei frutti, come sperano tutti i ragazzi che ogni giorno l’affollano e guardano la titolare con gli occhi imploranti di chi è venuto qua con grandi aspirazioni e ora si chiude in quest’agenzia sperando che prima o poi arrivi una chiamata anche per lui. Ma in fondo siamo immigrati e dovremmo conoscere bene le condizioni estreme dei veri immigrati, noi siamo immigrati privilegiati, la situazione che ci lasciamo dietro non è tragica e il paese che ci ospita è aperto ad ogni altra cultura, razza, religione). Nonostante il paese sia aperto ad ogni tipo di immigrato e ospiti gli stranieri senza discriminazioni, da italiano mi sono imbattuto in tre macrocategorie di compaesani all’estero: ci sono gli italiani arrivati in Australia in cui non ci riconosciamo, italiani che si vede da lontano che sono italiani e – sebbene anche noi abbiamo tipici tratti italiani e un po’ spagnoli – è come se ci respingessimo a vicenda,  italiani con esigenze diverse, italiani alla moda, italiani chiassosi, italiani gelosi delle dritte che hanno, degli agganci che si sono trovati o conquistati, dei lavoretti che stanno per iniziare, italiani; poi ci sono gli italiani che sono qui da anni e anni, che hanno fatto fortuna, che hanno aperto un ristorante più o meno italiano (ho provato a fare il cameriere in uno dove di italiano c’è il nome e parte del titolare – parte perché è oriundo, è la madre l’immigrata italiana, lui come gli italo-australiani, parla un italiano obsoleto con venature di dialetto a seconda della regione di provenienza e in quest’italiano scrive il menù del ristorante), questi italiani hanno un’indole benevola, ti offrono un caffè italiano (finalmente) hanno una forma di distaccata nostalgia: hanno fatto la loro scelta, hanno lasciato la propria patria coscientemente, ma non per questo non amano il calore che ci portiamo dietro, hanno piacere di parlare finalmente un po’ di sano italiano, condito di bestemmie, vaffanculo, insulti alla situazione italiana, ovviamente a Berlusconi (a tal proposito, più avanti riporterò l’unico articolo di giornale che ho trovato che parla dell’Italia), non hanno gelosie lavorative e ti augurano il meglio, ti danno qualche dritta e poi tornano a lavorare e quando torni sarai il benvenuto; poi ci sono gli italiani come me, Flò, Germano, Marco e, appunto, Matteo. Matteo è giovane, talmente nord italiano che non sembra un compaesano,  e quindi è lui ad attaccare bottone con gli italiani, se vuole, e lo fa con noi che siamo di quel genere di italiani che hanno piacere a stare insieme, con discrezione, attenti a non esagerare, consapevoli che bisogna conoscere stranieri per imparare bene la lingua. Così con Matteo andiamo in cazzeggio per un po’, ci facciamo compagnia a vicenda, gli facciamo conoscere il ristorante arekrishna che anche noi è un po’ che non andiamo, andiamo al mare a Fremantle e, appena arrivati in spiaggia, lui fa “divertitevi ragazzi” e scappa via correndo a una velocità pazzesca nella sua magra leggerezza, lasciandoci interdetti tra gli ossi di seppia sparsi sulla sabbia, poco dopo lo vediamo sopra le rocce che delimitano il confine opposto della piccola baia e un attimo dopo è di nuovo da noi e spinti dal suo entusiasmo riusciamo a farci un bagno nell’acqua ancora troppo fredda, poi siamo noi ad allontanarci, ad andare sulle rocce più vicine ad osservare da vicino un pescatore di pesce oceanico e mi dico che tra un po’ mi toccherà provare a tirare su uno squaletto (leggi anche sardina) anche a me. Al ritorno Matteo è in meditazione e non ci nota neanche, il giorno dopo lo portiamo al parco per provare a vedere i canguri liberi e questa volta ci sono: cinque canguri non troppo grandi circondati da una decina di giapponesi timidi e spaventati che gli fanno le foto a distanza di sicurezza. Incurante della loro paura orientale, mi avvicino con prudenza occidentale al primo che vedo, mi annusa, mi scruta e si lascia accarezzare e come me si avvicinano Matteo e Flò. Un attimo dopo mi pento quando vedo che non tutti i nippi sono rimasti guardinghi a distanza di sicurezza, ma una coppia di ragazze si avvicina fino a toccarne uno, a farci foto con la tipica posizione delle dita a V e, prendendo via via più confidenza, arriva a scattargli foto con un areoplanino sulla schiena umiliando il simbolo dell’australia. Repentino il canguro umiliato si alza sulla coda e con un doppio calcio, con l’artiglio dell’unico dito del piede posteriore, colpisce al volto le due ragazze sfigurandole a vita e per una volta si fa carnivoro e banchetta con gli Hellokitty che sgorgano dalle ferite aperte. Naturalmente - purtroppo - questa fantasia si concretizza soltanto nei miei osceni pensieri. A fine pomeriggio Matteo ci saluta: all’alba del giorno seguente partirà con una ragazza tedesca diciottenne - che ci ha fatto conoscere il giorno prima e verso cui abbiamo dato il nostro benestare - e il suo furgone verso il sud. L’Australia è grande ma ci rincontreremo. Quel giorno perdo un amico, ma prendo il raffreddore.


martedì 13 novembre 2012

Quegli amabili ragnetti non saranno mica velenosi?



Oh, guarda che bella striatura rossa attraversa il suo corpo nero ciccione, dice lei osservando da vicino uno dei ragni che hanno tessuto la tela appena fuori l’ingresso di casa, io mi avvicino ed effettivamente, visti da vicino con questo segno distintivo, sembrano più simpatici. Scegliamo i nostri preferiti e ogni giorno, passando, ci fermiamo a vedere come procede la loro piccola vita, se qualche insetto è rimasto appiccicato tra le maglie della tela, se sta per piovere e se ne stanno rintanati nel cantuccio più riparato, se stanno espandendo la loro proprietà, sperando in un condono edilizio. Poi un bel giorno, siamo a prendere una birra con due amici italiani, quando salta fuori il discorso ragni velenosi. C’è questo simpatico ragnetto il cui morso può portarti conseguenze spiacevoli: se sei in un’età di mezzo passi due brutte settimane, se sei un bambino o un anziano, più semplicemente, muori. Il ragno in questione si chiama redback spider e si chiama così per la striscia rossa che attraversa il suo dorso nero. COME?? La descrizione mi ricorda qualcosa, qualcuno che ho visto di recente. Mi illumino e mi spavento allo stesso tempo. I nostri nuovi, apparentemente pacifici, coinquilini sono in realtà potenziali assassini. Al ritorno li evitiamo e li schifiamo come se avessero tradito la nostra fiducia e corriamo su internet a cercare un riscontro: immediata arriva la conferma della loro pericolosità (seppure dal 1984 non risultano esserci stati più decessi), le immagini non sono però così chiare. In alcuni casi sembrano proprio loro, in altre foto sembrano più grandi e pelosi e la striscia rossa molto più accesa e nitida, fatto sta che ora che li vediamo come potenziali assassini non ci avviciniamo più e, nel dubbio, li trattiamo come estranei. Loro sembrano non accusare questa nostra presa di distanza nei loro confronti e continuano nella loro piccola vita fatta di api e falene e mosche intrappolate nelle tele e poi avvolte e sbranate le più fortunate e lasciate essiccare come funghi per costituire banchetti futuri, le più sventurate, e ancora altre tele per sostituire le vecchie e altre nuove per espandersi e così via, indifferenti. Ma quando passiamo e tiriamo dritti, con la coda dell’occhio li vedo che ci guardano e, per un attimo, mi sembrano malinconici, ma un attimo dopo riprendono a sbranare insetti nella loro piccola, apparentemente semplice, vita.



 

lunedì 12 novembre 2012

Segue sinossi di un mese d'Australia

Canguri al parco
Artisti di strada al centro di Perth
Serate in casa
e una musica che ci perseguita...






domenica 11 novembre 2012

Settimana della blatta gigante disintegrata da Susan sul pavimento della cucina. Dei ragni ciccioni e del Germano


Come tutti gli animali rari, unici, particolari e strani del continente anche gli insetti più beceri non sono da meno. Gli scarafaggi nostrano sono sostituiti da altri più chiari di maggiori dimensioni che per maggiore tranquillità chiamiamo blatte, un nome meno spaventoso blatta gigante, rispetto a scarafaggio gigante, ma il concetto è quello. E quello che è comparso nella prima sera calda sul pavimento della cucina avrà fatto cinque cm e sembrava consapevole della propria imponenza, considerando che anziché scappare, dimenava le zampette in direzione dei nostri piedi. Immediata è scattata in noi l’italica paura delle bestie, l’abbiamo coperto col coperchio della pattumiera e da una fessura abbiamo spruzzato dell’insetticida, forse buono per altri insetti, forse poco potente, forse scaduto, sicuramente inutile. Siamo così ricorsi alle maniere forti e abbiamo annunciato all’enorme coinquilina nera di pelle e bionda di chioma, la presenza di uno dei Beatle, lei con la grazia che padroneggia nonostante la massa, si è diretta scalza verso l’orribile bestia, ha scoperto il contenitore e ha trasformato la sua timidezza in furia assassina spappolando le nere interiora della blatta sul linoleum della cucina. In seguito all’incontro iniziamo ad aprire gli occhi per identificare animali appena un po’ più piccoli di taglia di un canguro: è così che notiamo 3 bei ragni cicciotti appena fuori al portone d’ingresso con cui impariamo a socializzare con il passare dei giorni, un geco e, proprio al centro di una delle principali vie della città un germano gigante.
Germano suona il basso in una delle vie del centro di Perth, una delle più trafficate. Germano suona il basso con un costume da tirannosauro comprato all’esercito della salvezza, salvezza dei backpackers, dove ho fatto il mio primo acquisto: una camicia nera che potrebbe servire per lavorare (taglia S mentre in Italia portavo tra la L e la XL, ma qui sono un po’ americani, i fastfood e mcdrive li stanno ingrassando e vedi camicie taglia 7XL e io mi sento un figurino). La camicia l’ho pagata 4 dollari, la maschera di Germano, la maglia e la coda non so quanto siano costate ma sicuramente non più di 10 dollari. È vero che a Perth la vita è cara, è molto cara, ma se hai origini umili, se hai vissuto da solo, se hai imparato a fare la spesa in Italia, riuscirai a risparmiare anche qua. Al supermercato Coles trovi buone offerte: i pomodori che due settimane fa erano a 16 dollari al kg, stamattina erano a 2,50. Al ristorante indiano arekrishna mangi quanto vuoi e paghi quanto vuoi, sempre nel massimo rispetto delle persone e delle cose, senza sprecare cibo o consumare alcolici, ma tant’è. Germano suonando guadagna cifre che in Italia sarebbero impensabili lavorando sodo con un buono stipendio, si guadagna la giornata e qualcosa di più. Germano non è uno di quelli che raduna le folle che si fermano ad assistere al suo spettacolo, Germano è uno di quelli a cui si lasciano gli spicci passando come ringraziamento della piacevole musica che fa e come tributo all’intraprendenza avuta nell’andare da Salvo’s (l’esercito della salvezza) prendere la maschera e indossarla. Come Germano ce ne sono molti, ma più di loro guadagnano quelli che padroneggiano l’arte che incanta le folle, le raduna, le assiepa, e le fa assistere alla completa esibizione: si alternano il mago, il ballerino e il giocoliere con la sua altissima bici monoruota. Loro decisamente si guadagnano la giornata, oltre a qualcosa da mettere da parte: ho visto il mago contare i soldi in ostello, l’ho visto anche esercitarsi dalle prime ore dell’alba subito dopo colazione per migliorare sempre i propri trucchi, anche per contare i soldi ha un trucco: considerando l’enorme numero di spicci li divide per tipo di moneta e li pesa su una bilancia di precisione poi si fa due calcoli magici e scopre l’incasso stupefacente.
 

sabato 10 novembre 2012

Arnold è suo fratello

L’altro dettaglio riguarda la vita in casa, la sala, il maxischermo in tv e quell’ombra che avevamo intravisto uscire dalla porta il giorno che abbiamo fermato la casa. Non che necessitiamo della sala… quando abbiamo una camera, un cesso, un bagno (che sono due cose diverse), una cucina, un tavolo fuori è già abbastanza, ma già che c’è ti verrebbe da andarci a sentire un po’ di tv per entrare nella lingua. Invece, sin dalla mattina dopo il nostro arrivo, capiamo che c’è qualcosa di strano: la televisione è accesa a volume basso e si sente provenire una sorta di rantolo, un respiro affannoso, è qualcuno che russa. Forse è Susan che si è addormentata, non indaghiamo. La sera la situazione è la stessa, la mattina seguente idem. Ma la macchina di Susan non c’è, dev’essere qualcun altro e infatti di lì a poco la presenza si alza e viene nella nostra direzione, ci saluta come vecchi amici e va al cesso. Il bianco dei suoi occhi riluce sulla sua pelle resa ancora più scura dal cappuccio della felpa militare che indossa. Tornato dal cesso si presenta, è William – ci dice il nome con la bocca impastata dal sonno, noi non capiamo e lo ribattezziamo Arnoldino – è il fratello di Susan, un altro dei fratelli, non capisco bene cosa stia facendo da tre giorni sul divano. Ipotizzo sia una soluzione temporanea, sia agli arresti domiciliari, si stia nascondendo da qualcosa, ma con l’andare del tempo mi accorgerò più semplicemente che fa una sorta di couchsurfing a casa della sorella e la sala è la sua stanza e dorme una cifra spropositata di ore al giorno e che forse ha un divano antidecubito. Mentre ipotizzo lui è già tornato a dormire. A volte lo incontriamo anche sveglio, ma è sempre caracollante, con passo incerto, come se non fosse completamente sveglio. Si muove perlopiù la notte quando noi dormiamo. È di notte che, tornando da una serata, si avventa su una delle due ciabatte (il pane) che avevo cucinato la sera prima e avevo colpevolmente lasciato sul piano della cucina a freddare. La mattina che mi sono accorto dell’assenza di una ciabatta, cioè metà della mia prima produzione di pane australiana, ho avuto un mancamento. Ma, pensando alla salute del piccolo Arnoldino, che troppe volte abbiamo incrociato con buste di McDonald o simili, mi convinco sia andato per una giusta causa e sorvolo. In seguito arriveranno anche le scuse di Susan per conto di Arnold, prima, e del diretto interessato, poi, che riconosce anche la bontà del prodotto! Qualche mattina dopo, un sabato, fatta colazione, usciamo sul retro a prendere il caffè, lo troviamo seduto su una sedia con una bottiglia d’acqua in mano, il computer di fronte e lui seduto che dorme. Ogni tanto sembra svegliarsi, tenta di portare l’acqua alla bocca, ma, stremato dallo sforzo, rinuncia e torna a dormire. La scena si ripete per circa venti minuti, al termine dei quali si sveglia d’improvviso e inizia a raccontarci la sua vita, il brutto incidente che ha avuto, la cura sbagliata dei medici, il torpore perenne che gli prende gamba e spalla (ma sembrerebbe anche il resto del corpo), la paura di tornare in ospedale, le scuse per il pane che ci ha rubato, le spiagge di Perth, la spiaggia di Cottesloe, di Fremantle e di Scarborough, la paura del mare, la paura degli squali, la surfista a cui uno squalo ha staccato un braccio con un morso e che ora surfa ancora senza il braccio, la pizza di Domino’s (che sostiene abbia un ottimo rapporto qualità/prezzo) che ci porterà per cena perché siamo una grande famiglia, perché mi ha preso il pane, altre scuse. Poi la sera, con una voglia di pizza incredibile, lo vediamo tornare a mani vuote, ma ci fa “I did not forget pizza” ma era troppo tardi quindi sarà per un’altra volta, rispondiamo che avevamo già mangiato e non ci pensiamo più. Qualche tempo dopo, senza preavviso ci bussano alla porta. È la notte di Halloween, cerchiamo dei dolcetti da regalare, ma quando apriamo la porta vediamo che è solo il tipo della consegna pizze di Domino’s, cerca un certo William, ora finalmente capiamo il nome, provo a svegliarlo. Lo chiamo, mi avvicino, lo chiamo, all’ingresso della sala-tugurio, nessuna risposta, continuo ad avvicinarmi e sto per perdere le speranze quando spalanca gli occhi nel nero della stanza e scatta in piedi. Va alla porta trascinandosi le coperte che lo avvolgono, paga la pizza e ci chiama perché aveva stabilito, senza chiederci nulla, che quello era il giorno che ce le avrebbe offerte. Pizze troppo cariche, pizze farcite poco meglio che a caso, ma pizze. La sua si chiama extra meat, ed è ricoperta di quattro diversi strati di ciccia. “Assaggia la mia che io assaggio la tua mentre lui assaggia la tua” ed è così che abbottatissimi, ci innamoriamo di Arnoldino, ma intanto lui è già tornato a dormire.


venerdì 9 novembre 2012

Susan e i suoi fratelli – 2


Entrati in casa ci stupiamo di come Susan abbia avuto la premura di allestirci il letto, fino al giorno prima costituito da tre materassi buttati in terra e ora, magicamente, troviamo quattro materassi, avvolti in  lenzuola color vinaccio, di quello che mi manca tanto, e una trapunta verde acido che, a dirla tutta, vi si abbina anche bene. Siamo nella periferia di livello medio basso, ma fondamentalmente tranquilla. Tuttavia alla lunga ci accorgeremo che la notte siamo isolati per mancanza di autobus, che nelle vicinanze non c’è niente da fare senza un mezzo proprio, che l’aeroporto internazionale è proprio dietro di noi e comunque ogni mattina è uno spettacolo vedere gli aerei in decollo e di notte ancora di più e fanno molto meno rumore di quei treni che ti passano di fianco al campeggio in molti luoghi della costa italiana, e anzi qui si dorme fin troppo bene, con il famoso assordante silenzio, tanto placido da ricordare i più strani sogni ad ogni risveglio. Effettivamente la notte non c’è molto da fare, effettivamente alla lunga mi troverò a ripensare alla scelta fatta scegliendo questa casa, al fatto che ogni scelta è una rinuncia. Col senno di poi, mi trovo ad interrogarmi su quali futuri mi avrebbero riservato le altre case viste, o, addirittura, il costoso ostello, che garantisce però vantaggi di cui ci si accorge a posteriori, come la vicinanza dal centro, il contatto costante con gente più o meno interessante che vive una situazione simile alla nostra, il contatto col mondo del lavoro e il vegemite offerto a colazione! All’inizio la casa comunque serve, in assenza di qualcuno che si renda disponibile a ricevere la tua posta, per ricevere parte dei documenti che ti verranno spediti come il medicare (banca e tfn mandano i documenti all’ufficio postale), etc...

Tornando alla casa. Tutto filerebbe liscio se non fosse per due dettagli. Il primo è costituito dall’assenza di connessione internet in casa, di cui già eravamo a conoscenza, ma mai avremmo creduto che fare una chiavetta ci avrebbe portato via più di una settimana, in un paese dove tutto fila liscio come l’olio, dove quando vai in banca sei lì in fila che pensi come si pronuncia queue ed è già il tuo turno. Per quanto molte case includano nell’affitto la connessione wifi e il sindaco di Perth la fornisca gratuitamente in diversi spazi pubblici, avere una chiavetta internet si rivelerà molto utile in previsione di spostamenti, cambi casa, giri in cerca di lavoro… Spinto da una mera considerazione di convenienza unita alle migliori prestazioni, anche io, che odio sia le chiavette che gli abbonamenti che ti vincolano per tot mesi, cedo e decido di fare un abbonamento per una specie di router che può collegare a internet fino a 5 pc simultaneamente ed ha 12 giga di traffico/mese ad un prezzo più che onesto, specie se smezzato. Ed ecco dove ho scoperto che anche qui esiste una stupida burocrazia: per farla breve, da una parte ci dicono di no perché l’abbonamento dura 12 mesi e noi stiamo qui solo 12 mesi (io il problema non ce lo vedo, anzi mi sembra preciso), poi ci dicono che serve qualcosa che attesti che abitiamo da qualche parte, quindi corri in banca ad aggiornare la residenza, fare lo statement che provi l’indirizzo, ritorno e ci dicono che dobbiamo avere sul conto australiano - aperto il giorno prima con 20 dollari simbolici – un importo pari o superiore al valore dell’affare per un anno, circa mille dollari, e quindi giù a tornare in banca a prelevare dal conto italiano per trasferire su quello australiano sempre tenendo conto dei limiti di prelievo giornaliero, solo l’operazione di trasferimento dura più di una settimana, quando alla fine raggiungiamo la soglia richiesta, torniamo là (alla Virgin), dove ci dicono che mandano via il documento e domani ci aggiornano, ma non è vero ci vogliono 3 giorni e la risposta finale è NO, perché non ci è dato saperlo per la privacy fottuta, ma la tipa che si mostra caritatevole ci suggerisce di andare al negozio là di fronte, la Vodafone, dove possiamo provare l’abbonamento annuale che è simile al loro, o se fanno comunque storie, fare il mensile che è molto meglio alla Vodafone. Andiamo, proviamo l’annuale che ci bocciano all’istante, ripieghiamo sul mensile e in mezza giornata abbiamo l’abbonamento con Vodafone, alla faccia della Virgin burocratica.


mercoledì 7 novembre 2012

Susan e i suoi fratelli/1


Susan è la sorella di James e di Emanuel che abitano con Sandy, ma non solo. Mentre  ci dirigiamo in auto verso casa sua con Sandy e James, scopriamo che sono sette fratelli. Il dettaglio sarebbe irrilevante se di lì a breve non ci accadesse di imbatterci ripetutamente in uno di essi. Arrivati di fronte alla casa, bussiamo alla porta (come in America niente citofoni, si apre la porta antizanzara e si bussa), passa del tempo prima che Susan, la nostra Beyoncé tutta d’un pezzo, venga ad aprirci. Mentre ci mostra la casa sentiamo dei movimenti provenire dalla sala, come di qualcuno che stia scappando dalla porta sul retro. Ci voltiamo ed effettivamente notiamo un’ombra uscire dalla porta che dà sul giardinetto dietro casa (altra caratteristica delle abitazioni – non l’ombra che fugge, quanto il giardino dietro). Abbattuti dalle precedenti delusioni in fatto di scelta di casa, decidiamo di non indagare e visto, che tutto sommato, la casa si presenta come accettabile via di mezzo tra quelle viste, decidiamo di fermarla. E tiriamo un sospiro di sollievo.
L’appuntamento è per il giorno dopo alla fermata della metro dove, gentilmente, ci ha accompagnato Sandy al termine della visita della casa.
Il giorno seguente salutiamo la prima breve esperienza in ostello, ci carichiamo gli enormi zaini in spalla e, schiacciati dal carico come muli da soma, prendiamo la metro. Ci dirigiamo verso la fermata indicata dove Susan verrà a prenderci. Nell’emozione del giorno prima non abbiamo fatto caso al nome della fermata, ma ci ricordiamo bene che dobbiamo prendere la linea gialla e scendere alla seconda. Così facciamo. E così ci ritroviamo in una fermata simile, ma decisamente non uguale a quella che avevamo nella memoria – che si sa a volte gioca degli scherzi, ma a così breve distanza saremmo da ricovero. In quella fermata sconosciuta, chiamo Susan che non risponde. Capita a volte di sentirsi soli e abbandonati, quella è una di quelle. Le mando un messaggio, ma non risponde. Ripiego su Sandy a cui chiedo il nome della fermata, mi dice essere Oats Street, che, chiedendo a chi aspetta la metro con noi, risulta essere diverse fermate dopo. Scopro così che la linea gialla è l’unica ad avere due diverse linee parallele, entrambe fermano in Oats Street, ma una fa poche fermate e l’altra tutte. Con qualche patema arriviamo alla giusta fermata, ma dovremo ancora attendere una mezz’ora fatta di ansie e pensieri neri sul fatto che la casa sia stata affittata ad altri più belli, o che si trattasse solo di uno scherzo orchestrato dall’apparentemente gentile Sandy e i suoi amici di colore, prima che Susan si faccia viva e risponda che sta venendo a prenderci. Tiriamo l’ennesimo sospiro di sollievo. Imparerò strada facendo che l’affidabilità degli autoctoni negli appuntamenti è decisamente scarsa, ma vivendo la vita in modo molto easy, non dev’essere un problema, take it easy, mate! (ma ancora non mi ci sono abituato).



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