martedì 12 novembre 2013

Ciao e grazie

                                  

Ritornare, nel senso di rimpatriare, di tornare a casa, tornare all'ovile, dai propri cari nei luoghi familiari, tutto questo, il ritornare sui propri passi non è mai una vittoria eppure non sempre è una sconfitta.
Non mi sento sconfitto, tutt'altro.
Qualcuno che c'è riuscito prima di me mi ha rivelato che con questo viaggio abbiamo centrato e colpito il cuore dell'australia e per farlo c'è voluto un anno e forse servirebbe ancora qualche tempo in più, ma grosso modo questi sono i tempi. Qualcuno è curioso di sapere se l'esperienza arricchisce, in termini economici è innegabile che il lavorare sodo venga ripagato con moneta ben più sonante dei canoni a cui siamo abituati, è altrettanto vero che i costi della vita siano duri da sostenere finchè non si trova un qualsiasi lavoro. Eppure, in fin dei conti, se considero il primo mese di adattamento, due o tre mesi di viaggio in van per mezza australia, un viaggetto a metà anno in Indonesia, un altro a fine anno lungo un mese tra Taiwan, Giappone e Sud Korea, devo ammettere che sì c'è un arricchimento in termini economici, niente di eclatante e niente rispetto a quello interiore, alla consapevolezza che si acquisisce di se stessi, alla conoscenza del mondo e di chi lo abita, alle caratteristiche distintive delle varie culture, all'essere uguali e diversi da tutti. All'essere italiani che è una cosa stupenda e vergognosa, non so gli appartenenti a quanti altri paesi possano dirsi orgogliosi e affranti delle proprie radici: purtroppo e per fortuna sono italiano: purtroppo le persone peggiori che ho incontrato parlano italiano e per fortuna ne ho incontrate molte altre che mi hanno fatto ricredere ogni volta. Siamo figli di un misto di culture , tradizioni, grandi uomini, scoperte, marchi, che ci hanno fatto apprezzare da tutto il mondo, ma è come se ci stessimo chiudendo su noi stessi, se stessimo defecando sulle nostre risorse, è come se stessimo implodendo, dovremmo aprire gli occhi, viaggiare e essere orgogliosi di essere italiani essendo al tempo stesso aperti a tutti.
Sul concetto di tornare. Ci sono motivazioni più o meno grandi che mi hanno spinto in questa direzione. Sorvolando su quelle grandi che possiamo catalogare sotto la voce motivi personali, mi piace ricordare quelle piccole, minuscole quando ce l'hai, enormi quando ti mancano, quelle cose come la mozzarella, il prosciutto, la cultura, il caffè al bar con un amico, girare in bicicletta, la radio, i vicoli e le piazze, un parco in città, il pane cotto a legna, la lavagnetta con su scritto “a pranzo da me, nonna”, i piccoli Camilla, Damiano, Zoe, nati quando ero via, un anno in più sul volto di tutti, come si cambia, come in fondo non cambi niente, la primavera, l'autunno e sì anche l'inverno, il camino bruschette e castagne, raccogliere funghi e asparagi, la neve, le vecchiette, il dialetto...
E quindi grazie a tutti quelli che ho incontrato e che hanno reso il viaggio splendido da quel “ciao” che un giorno ci rivolse un siciliano vestito da drago, passando per i coinquilini, gli amici incontrati a fremantle e in viaggio, a Chris, Jhonny, Uta, Mike che abbiamo poi incontrato nei loro luoghi di nascita che sono posti fantastici specie se vissuti con persone speciali, e infine ma in primo luogo grazie a chi un giorno ha deciso di credere in questo sogno, lasciarsi prendere per mano per accompagnarmi verso l'ignoto.
Grazie alle persone e alle cose che ho ritrovato, grazie alle foglie rosse delle vigne dei paesaggi autunnali umbri che mi hanno accolto regalandomi il tepore di casa, grazie all'australia a ciò di incredibile che ho visto, che ho vissuto e che ho cercato di raccontare, a un paio di cose importanti che ho imparato da tenere sempre a mente che sono “never give up” e soprattutto “no worries”.

E poi c'è una sequenza di foto significative di un anno downunder in cui compaio con altra gente e animali che hanno significato molto, foto che fino alla fine avevo censurato per lasciar spazio al racconto, ma alla fine ci vuole qualche immagine.

E poi e poi ciao, not goodbye, just see ya






















mercoledì 25 settembre 2013

Fine di un capitolo


Vendere e comprare un'auto in australia è una roba relativamente facile. Straordinariamente facile in Western Australia, diventa più complicato in Queensland dove chiedono certificati rilasciati da meccanici autorizzati che ovviamente hanno un costo. Certificati o no, una volta raggiunto l'accordo economico, compratore e venditore dovranno limitarsi a compilare un modulo con i propri dati e quelli del veicolo e consegnarlo alla motorizzazione. Se il veicolo ha la registrazione (REGO) scaduta diventa tutto più complesso specie se l'immatricolazione è stata fatta in uno stato diverso da quello in cui si procede all'acquisto. Vendere il van è stata un'esperienza ricca di emozioni, per prima è arrivata l'incazzatura per questa truffa che gira e che non ti aspetti. Ti aspetti di più di essere truffato quando compri. Invece c'è questo tipo che ti contatta via mail (la cosa mi era già successa al momento di vendere la macchina), dice che il mezzo gli piace e il prezzo è ok, ti scrive che ha solo internet perchè lavora in miniera a più di 3000km di distanza, quindi le comunicazioni saranno via email, la cosa inizia a puzzare, ti chiede le coordinate bancarie per farti il bonifico, la cosa puzza di più ma sembra allettante, gli chiedi come pensa di fare per la compilazione del modulo, risponde che verrà un suo incaricato a prenderla e a firmare i moduli e poi trasporterà l'auto fino al nuovo proprietario per oltre 3000km. Volendo ci si trova anche una logica, ma chi è che comprerebbe una macchina usata avendola vista solo in foto? Prima di andare avanti con la sceneggiata, cerco su internet e scopro le fasi successive. Il tipo dirà che non può disporre un pagamento perchè in mezzo al niente e intanto andrebbe anticipato il costo del trasporto da parte dell'incaricato. Quindi non potendo lui pagare nessuno chiederà a chi ha messo in vendita il mezzo di anticipare la quota così che poi il compratore pagherà al venditore il costo dell'auto più la restituzione dell'anticipo. É una truffa che non sta in piedi, comunque perdere del tempo con questo tipo che ogni volta cambia nome e con cui scambi un paio di mail prima di capire, è una cosa che rompe le palle.
Al di là della scocciatura di cui sopra, vendere il van con cui hai condiviso sei mesi di esperienze, il van che è stato mezzo di trasporto su strade lunghe e noiose, o sabbiose e dissestate, il van che è stato camera da letto essenziale, comoda, poi scomoda, poi ti ci abitui, che è stato cucina basilare per piatti veloci, poveri e in grado di saziare (riso e patate su tutti).
Venderlo non è stato facile, all'inizio le richieste erano poche e ognuno aveva strane esigenze (manca l'aria condizionata, il volante è duro) per un van del 1994 con più di 400mila km, poi le richieste sono aumentate e, sebbene ci fosse ancora qualcuno fuorviato da strane leggende metropolitane sull'iter burocratico da seguire, si sono fatte avanti persone veramente interessate che cercavano difetti per scalare il prezzo. Avere parecchie persone interessate ti rende malleabile alle trattative e accetti le loro proposte con un sorriso riservandoti il diritto di fargli sapere qualora arrivasse un'offerta migliore e lì viene fuori chi è più disperato che ti dice ok te lo compro subito.

Sei soddisfatto, ti senti al settimo cielo, hai concluso un affare alla cifra che speravi, non hai più legami e puoi salire sul primo aereo che ti porti a rifiatare fuori dall'australia. Eppure quando ti volti e vedi il van andarsene guidato da qualcun altro senti salire il magone di un amico perso, di una cosa finita, di un capitolo chiuso.

Cinquantotto


FARMVIST
Scopo del gioco: ottenere la firma del relativo modulo da parte di uno o più farmer che certifichino il completamento di 88 giorni di lavoro nel settore agricolo.
Partecipanti: tutti i ragazzi europei – a eccezione degli spagnoli che non possono giocare – di età compresa tra i 18 anni compiuti e i 30 anni e nove mesi.
Regolamento: il giovane che decide di partecipare dovrà munirsi di passaporto valido, visto working holiday visa e biglietto aereo diretto in australia. Il partecipante sarà libero di scegliere data di partenza a condizione che non sia trascorso più di un anno dall'approvazione del WHV, il partecipante sarà inoltre libero di scegliere se fare un volo di sola andata o prenotare anche il ritorno.
Condizioni: una volta atterrato in australia il partecipante avrà un anno di tempo dal momento del timbro del passaporto per ottenere gli 88 giorni. Il partecipante non portà lavorare più di sei mesi per uno stesso datore di lavoro, né seguire un corso di studi per più di quattro mesi.
Regolamento – continua - : in australia il partecipante sarà libero di scegliere l'opzione a lui più congeniale per ottenere gli 88 giorni di lavoro. Due sono le macro categorie tra cui scegliere e la scelta di una non esclude che in seguito si possa passare all'altra. La prima macro categoria è il lavoro in farm, la seconda è il cosiddetto woofing. Il partecipante sarà libero di scegliere la farm in cui lavorare e guadagnare qualche dollaro, o la casa di campagna in cui lavorare in cambio di vitto e alloggio.
Difficoltà: le difficoltà sono varie e imprevedibili, tra le maggiori vi sono gli eventi stagionali, produzione di frutta e verdura scarse o in ritardo, la concorrenza (i posti in farm sono di fatto limitati mentre è illimitato il numero di partecipanti), ai partecipanti non è dato conoscere il numero delle farm e quali di queste ha bsogno di manodopera. Il partecipante sarà dunque tenuto a recarsi direttamente in loco, ad iscriversi a relative agenzie di lavoro, o qualsivoglia altro mezzo lecito per trovare una farm che abbia bisogno di gente.
Vincitore: non c'è un unico vincitore, vincono coloro i quali riescono a resistere a fatica e a eventi nefasti per 88 giorni
Premio: ciò che ottiene il vincitore è la possibilità di trascorrere un altro anno di australia con i pro e i contro del WHV senza alcun bisogno, se non per irragionevole piacere, di lavorare ancora in farm.
Esempi di campioni di farmvist
Personalmente, essendo entrato in australia a 30 anni e 11 mesi, non ho potuto prendere parte al giuoco. Tuttavia è stato molto divertente ed eccitante seguire le peripezie di piccola Flò che è diventata una delle vincitrici di Farmvist ottenendo qualcosa come 150 giorni di lavoro tra farm e woofing! L'ho vista dannarsi l'anima in famiglie strampalate che le chiedevano di fare i lavori più disparati in ambito woofing. Le ho visto indurirsi i calli sui palmi per strappare erbacce con tutta la radice, l'ho vista correre dietro al tempo che scorreva veloce come non è possibile immaginare mentre raccoglieva pomodori pagata al kg, ho visto secchi su secchi riempirsi di pomodorini e le ore volare, l'ho vista pungersi con le spine dei lime o fare scatole di papaye con forme assurde difficilissime da incastrare, l'ho vista soffrire mal di schiena, le ho spalmato la crema lenitiva, l'ho vista sul punto di cedere dal dolore o dallo stress, l'ho vista farsi forza. Ho visto tutto questo perchè ero lì con lei. L'ho vista combattere, stringere i denti, guadagnare bei soldi e infine l'ho vista vincere!

Cinquantasette


Mi sveglio nel buio della camera, il letto è ancora caldo del torpore del sonno, apro l'ampia finestra, spalanco le persiane, fuori nevica, una ventata gelida si insinua nella pelle, freddo, chiudo tutto, vado in sala, mi siedo sul divano, posso sentire il rumore della città: le auto che procedono timorose, dei ragazzi che giocano con la neve, vado in cucina, apparecchio la tavola, bevo vino rosso dal bicchiere, mangio prosciutto e mozzarella, mi pulisco la bocca con un tovagliolo, in bagno mi rinfresco col bidet, chiamo un amico, esco in bici, ci prendiamo un caffè al bar, parliamo di tutto.
Tutto falso? Un sogno?
Apro gli occhi, è buio, mi alzo dalle assi di legno che, incassate nel retro di un furgone, fanno da letto, indosso vestiti sempre più logori, spalanco il portellone che cigola sulla guida arrugginita, scalzo vado in cucina schivando rane, mangio vegemite, fuori è già caldo, ancora e ancora caldo, ma presto sarà caldissimo, non c'è un rumore se si esclude qualche strano uccello che grida e il battito d'ali di enormi pipistrelli, bevo acqua piovana da una bottiglia di plastica sporca di terra, nel silenzio di un capannone di prima mattina aspetto con colleghi silenziosi il momento di iniziare a raccogliere papaye, a pausa pranzo mangio gli avanzi della sera prima, non c'è il tavolo, il piatto sulle ginocchia mi fa sudare di più, mi pulisco la bocca con la manica.
Tutto vero? Era un sogno?
Sono di nuovo nel limbo di un ostello, aspetto un aereo, sogno il passato il presente e il passato che troverò nel futuro.

Non c'è bene o male, giusto o sbagliato, c'è una cosa e quel che sembra il suo opposto. E c'è nostalgia per ciò che era perchè il ricordo è ingannevole e fa apparire solo ciò che ci faceva stare bene. Salvo poi ricredersi.

Cinquantasei


Le uova delle galline di Mirella, le zucchine dell'orto di Tom, le papaye di Roberto, i pomodorini di Jed, l'insalata sempre di Mirella, gli scarti di Patch: i dolori della farm valgono i prodotti gratuiti e genuini che farmer e amici ci regalano? NO! Ma se si aggiunge l'ottimo salario e la possibilità di usufruire della cucina e del bagno gratuitamente, tutto cambia e diventano la ciliegina di una torta alla frutta. Tra tutti i prodotti quelli che hanno più gusto sono quelli che ci porta Mirella, perchè vengono da lei che ci tratta come nipoti.
Mirella mi farà cambiare punto di vista sull'ondata di immigrazione di cinquant'anni fa, io che vedevo questo viaggio in nave lungo un mese verso terre ignote come un'epopea disperata, devo ricredermi, almeno in parte, almeno per quanto riguarda lei.
Mirella è la classica nonna italiana, con la vestaglia lunga celeste, i capelli corti bianchi e la corporatura delle nostre nonne. Le piace raccontare, mi piace ascoltarla. Le chiedo del viaggio che fece nel 1961 delle incognite e delle speranze, mi risponde che sì il viaggio in nave fu lungo, ma fu un mese splendido, di incognite non ne aveva perchè il futuro marito era partito prima di lei, aveva visto e valutato le possibilità, aveva iniziato e poi, come quando si lascia a casa una roba importante e si fa inversione in macchina per tornare a prenderla, così lui si era imbarcato di nuovo per andare a prendere lei che per lui era la cosa più importante. E il viaggio non fu pieno delle angosce e dei tormenti che immaginavo, al contrario fu stupendo, fu il loro viaggio di nozze e – benchè il capitano della nave suggerisse a tutti di prepararsi e di studiare l'inglese – loro trascorsero il tempo a ballare e a giocare a carte e l'inglese sarebbe venuto dopo, molto dopo.
Ecco che questo breve racconto rende a colori un viaggio che nella mia mente riuscivo a vedere solo in bianco e nero.

Mirella fa ancora fatica con l'inglese e quando mi chiede se può parlare italiano tutto le esce più schietto, pure qualche bestemmia.

domenica 8 settembre 2013

Cinquantacinque


Problema:
dato un grape tomato del peso di 20gr circa, calcola quanti di questi (fottuti) pomodorini servono per raggiungere quota 100kg. Inoltre, considerato un intervallo di tempo di 8 ore, interrotto da due pause di 5 minuti l'una, in cui vengono raccolti i suddetti 100kg di grape tomato, calcola quanti pomodorini saranno raccolti al minuto.

Diverso tempo era trascorso senza che andassimo a Port Douglas. Non che le cose fossero cambiate, eravamo ancora da Patch, ma venivamo convocati per fare un paio di giorni a settimana di raccolta lime. Era un ottimo motivo per restare a Dimbulah e una perfetta scusa per non seguirlo al mercato. Poi ci fu una pausa nella raccolta, accadde così che per la settimana successiva non sarebbero stati raccolti lime, ma per quella successiva ancora sapevamo che saremmo stati arruolati per i grape tomatoes. Avevamo una settimana libera e decidemmo di trascorrerla ancora a Port Douglas dove ormai eravamo di casa per vedere amici, per reclamare indietro le tasse pagate, per vacanza e, soprattutto, per lasciare definitivamente quel delirio di casa e di uomo che è Patch che i giorni da trascorrerci insieme erano belli che finiti.
La settimana a Port era appena cominciata e poi, e poi ci chiamò un'altra farm, questa di pawpaw o papaye che è la stessa cosa, che aveva urgenza di un paio di lavoratori per la settimana. E nel capannone c'era una cucina che potevamo usare liberamente e non dovevamo tornare da Patch. E allora risalimmo di corsa in van e tornammo ancora a Dimbulah. E amici, tasse, relax rimandati.
Il trattore su cui raccolgo papaye procede lento ma costante, procede inesorabile. E io lassù sull'elevatore che andava su e giù e intanto basculava e la sera del primo del giorno avevo le vertigini e il mal di mare. E faceva su e giù e basculava e andava avanti lento e costante e si fermava un attimo e ripartiva inesorabile e gli alberi fitti e le foglie grandi si muovevano col vento e sembravano sussurrarsi e le papaye gialle erano verdi e se erano gialle erano troppo mature e andavano scartate e nel verde delle papaye gialle nel senso di qualità dovevo trovare sfumature di giallo, le papaye rosse erano in un altro campo ma erano arancioni, quelle gialle di qualità verdi di colore con incombenti sfumature di giallo quelle andavano bene, ma occhio ai graffi dei rami, ai morsi dei cacatua, alle cacate dei pipistrelli, ai graffi degli uccelli, alle bruciature solari, in quei casi non andavano bene, quasi mai. Non era facile osservare, giudicare, scegliere, tenere o scartare, ci voleva velocità di giudizio e poca clemenza. In più staccare una papaya da un'altezza di tre metri su un trattore in movimento non era proprio come staccare un lime con i piedi poggiati in terra. I rami dei lime hanno le spine, devi carezzarli dall'interno verso l'esterno per evitare che ti si conficchino nelle mani. Anche i lime vanno dal verde al giallo ma lì la scelta va più per dimensione. Se le piante sono di quelle alte e passi il tempo col naso all'insù rischi si soffrire di mal di collo. Coi lime canticchiavo “lemon tree”. Le papaye sono grosse, proprio enormi rispetto ai lime, credo che quelle che raccogliamo pesino di media un chilo e mezzo. Le papaye non hanno spine, ma il latte che piangono quando le stacchi fa la pelle tenera che è un'espressione che mi piace “piangere latte fa la pelle tenera”, ma invece significa che la rende morbida e irritata e questa cosa non mi piace, ma io sono coperto con i guanti sulle mani e le maniche lunghe sulle braccia, ma il latte brucia anche gli occhi ma io sono miope e in questo lavoro avere gli occhiali mi fa proprio comodo, mi sembra di essere protetto ma non si può stare tranquilli su un trattore in movimento a raccogliere papaye così pesanti. Canticchio “yellow” dei coldplay. Il primo giorno ero così concentrato sulla raccolta delle papaye che ho messo un piede nel vuoto alla fine della passerella, quasi quasi cadevo, quella notte ho sognato di cadere, ma non come si sogna di cadere quando si sogna di inciampare su un marciapiede, ho sognato di cadere da molto moltissimo in alto e lo scatto che ho fatto è stato enorme con mani, braccia e gambe che cercavano appigli nel letto e ha svegliato anche lei che mi dormiva vicino, sigillati insieme dentro un van, di fianco a un capannone vuoto, di fianco a un cane legato, in mezzo a campi di papaye e nient'altro per centinaia di metri.
Jason raccoglie con me, è poco più vecchio di me, è australiano, quanto fuma è impressionante, ma fa più impressione quanta poca acqua beva e quanto la sostituisca con coca cola e red bull (gli altri della farm lo chiamano appunto red bull), ha pochi denti e la spiegazione dev'essere legata a questa sua dieta (dice che qualche giorno fa abbia vomitato sangue, tutti crediamo di sapere da cosa dipenda), raccoglie le papaye a mani nude, il latte non lo spaventa, mentre raccoglievamo ha detto di essere stato morso da un ragno, dice che lo ha preso di striscio, io l'idea di un morso di ragno di striscio non l'avevo mai presa in considerazione credo neanche gli autori di spiederman altrimenti il supereroe sarebbe stato (ancora più) una schiappa, chissà qual'è la differenza (sarà come il pugno di lato?), comunque fossi in lui i guanti li metterei e berrei un po' più d'acqua.
In mezzo alla settimana ci hanno pure chiamato a raccogliere i lime che avevano cambiato idea, ma ormai eravamo qua e i giorni di lavoro di più, credo che comunque il tipo si sia un po' offeso, ma si tratta di un misunderstanding, e poi ci hanno anche chiamato in una farm di patate, anche se non si raccoglie a mano l'idea delle patate non mi ha mai ispirato troppo. Comunque il lavoro ce l'abbiamo e ora ci troviamo a dover declinare, sempre con la massima cortesia, ma declinare.
La porta verde era la cucina, quelle blu, gialla, arancio e rossa dovevano essere camere ma non ci servivano, la porta viola era il bagno, viola era il colore preferito della tipa del farmer, viola piace molto anche a me, bianca con le orecchie nere era Luna il cane a catena, Luna era bravissima ma aveva il vizio di ammazzare le galline sicchè i farmer la odiavano mentre adoravano il fratello, Luna l'avevamo presa in custodia noi (l'idea del fratello buono e di quello stupido proprio non ci andava giù), Luna un giorno era sparita, “don't worry”, don't worry un cazzo! 
Le papaye gialle verdi, i lime verdi, i pomodori rossi, il cane bianco, le orecchie nere, le porte colorate, yellow, le mani ferite, le nocche screpolate, le stelle diverse e infinite, luna piena, luna bianca, luna il cane, l'una e trentacinque, il latte bianco brucia, la prima goccia di caffè, l'ultima goccia di caffè, il vegemite nero che ora mi piace, il dragon fruit rosso, il rosso antico, i fiori dei mango, la musica, la notte, un film, il silenzio, il silenzio assoluto, il silenzio. 
La soluzione del problema suesposto: caldo mal di schiena che urla di dolore: “infiammazione!”.




sabato 31 agosto 2013

Cinquantaquattro


Qualche tempo dopo arriverà anche uno di quei segnali che, se sei consciamente o inconsciamente predisposto in una certa direzione, ti aiutano a perseguirla con più convinzione. Sono piccoli segni, a volte dettagli, a volte sono enormi, ma se non sei predisposto non li cogli neanche così, a volte sono segnali che ti vengono dall'esterno senza che tu faccia niente e devi soltanto codificarli, a volte risultano molto spiacevoli e in quelle occasioni devi compiere un grande sforzo per accantonare il negativo e riuscire a distinguerli, altre volte li stai cercando senza aspettarti di incontrarli ma, imprevisti, appaiono.
A volte sono solo incontri. Incontri normali o incontri surreali che sia.
Era un pomeriggio qualsiasi di un giorno qualsiasi nella monotonia di un giorno senza lavoro a Dimbulah. Napoli era al bar. Eravamo in casa ammazzando il lento scorrere di quel pomeriggio. Napoli stava bevendo. Eravamo in Australia a meno di un chilometro da Napoli ma in quel momento non ne eravamo consapevoli. Poi le sirene. Cos'era? Ambulanza, polizia e pompieri tutti insieme? Qui dove il treno settimanale è un evento eccezionale, qui che quando siamo in giardino a selezionare frutta e passa un bambino in monopattino o Gesù in carrozzella (Gesù è un vecchio spagnolo barbuto che ormai ha imparato l'italiano e si ritrova a chiacchierare con i vecchi italioti locali intorno al tavolino fuori dal supermercato in vece della nostrana usanza di ritrovarsi al bar), qui che quando succede qualcosa alziamo lo sguardo e rimaniamo a fissare questo movimento che spezza l'immobilità, qui dove una sirena di un'ambulanza fa voltare tutti i paesani presenti, qui il suono di tante sirene significa qualcosa di incredibile. Siamo usciti e dal pub/hotel del paese arrivavano strane urla. Noi sbirciavamo, Napoli beveva. Ci siamo avvicinati con quel fare circospetto dei curiosi che cercano di apparire come fossero lì per caso. Le sirene, le urla venivano dal parcheggio dove erano radunate una ventina di auto un po' d'epoca, un po' modificate, tutte personalizzate, sicuramente strane. Dalle auto uscivano personaggi dei cartoni animati o rotolavano fuori barcollando uomini sudati e vistosamente ubriachi. L'evento in sé non aveva nulla di eccezionale per chi di auto d'epoca e di uomini ubriachi ne ha visti a bizzeffe. Più tardi, a furia di chiacchierare con personaggi dei cartoni o con ubriachi ci è venuta sete e siamo entrati.
Al bancone c'era un omino minuscolo in camicia a maniche corte, pantaloncini e berretto, da dietro a prima vista sembrava un bambino, ma la pelle era vecchia e con peli bianchi. L'omino parlava con un grosso australiano che non pareva prestargli attenzione, l'omino nominò Napoli e io dissi qualcosa in italiano a riguardo. L'omino si girò e iniziò a cantare.
Avevamo trovato Napoli. L'omino che nominò Napoli era giustappunto Napoli. Era l'unico immigrato napoletano della zona, era arrivato con l'ondata di migranti di una cinquantina d'anni fa. Si chiamava Quirino ma tutti lo chiamavano Napoli. L'omino cantò in napoletano con l'aria melodrammatica dei nativi di quella città. Poi scoppiò a piangere. Fa sempre uno strano effetto vedere un anziano sconosciuto piangere, il cuore si stringe e rimani in una buffa posizione di avvicinamento come se ti stessi slanciando in abbraccio ma poi ti blocchi e pensi “lo faccio?” e lui ti aiuta e, benchè ubriaco, cerca barlumi di lucidità e trattiene per quanto può le lacrime. Il solo fatto di avergli prestato attenzione lo commuove, poi si riprende, canta di nuovo, smette, racconta la sua storia e qui le lacrime gli piovono sulla faccia finchè non riusciamo a cambiare argomento, poi insiste per offrirci una birra per ringraziarci per averlo ascoltato. La sua è un'altra storia di solitudine, di profonda solitudine.
Brevemente.
Così basso di statura, ma orgoglioso come sono i napoletani è cresciuto rissoso per difendersi dalle offese sull'altezza, era il più piccolo di quattro figli, quello meno ubbidiente, le tre sorelle erano più tranquille. La situazione italiana era di estrema povertà, la povertà che spinse migliaia di italiani a imbarcarsi in nave per altri lidi compreso il viaggio di oltre un mese verso l'australia, questa che allora era più che mai sconosciuta. Crescendo passò qualche tempo a Roma, poi intorno ai vent'anni si trasferì per lavoro in Germania, in Italia suo padre morì, lui lasciò il lavoro e tornò a Napoli, la situazione di povertà era la stessa, qualcuno gli propose di andare in australia, allora Napoli era un ventitreenne “senza troppa capoccia” come ci disse, non ci pensò su, partì, lavorò nei campi, si sposò, ebbe delle figlie, divorziò, rimase solo, iniziò ad odiarsi (e a bere), a definirsi il più grosso degli stronzi per aver lasciato le sue sorelle con cui tuttavia si sentiva tutti i giorni, per aver lasciato sua madre senza più tornare, sua madre che nel frattempo era morta così lontano da lui e, non da ultimo, per aver lasciato Napoli. Napoli rimpiangeva di essere partito, era la persona più pentita di questa scelta che avessi trovato in australia, Napoli di diverso da tutti aveva che veniva da Napoli. Ora io non so come questa città possa prenderti l'anima, Napoli (città) non la conosco abbastanza, ma ogni volta mi sorprendo di come chi vi nasce vi resti attaccato per sempre, mi sorprendo di questo cordone ombelicale che non si strappa neanche a così grande distanza. Credo che tutti gli ex italiani arrivati anni indietro, per quanto alcuni non lo ammettano, sentano la mancanza di quanto di bello il nostro piccolo stivale ha da offrire, se però le loro origini sono napoletane allora non avranno problemi a riconoscerlo.

E al di là di questa bellissima cosa che è la napoletanità che è un discorso a sé, quelle lacrime, quella storia, quei rimpianti, quell'omino chiamato Napoli, in quel particolare momento storico ebbero il valore di un segno, il segno che conferma una dubbia decisione.

Licenza Creative Commons
IL SALTO DEL KOALA by FABIO MUZZI is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.